mercoledì 22 maggio 2013

Sveltina [1]: Gangs of New York



Visto che scrivere queste pseudo-recensioni mi occupa veramente troppo tempo, ho deciso di inaugurare questa nuova rubrica per velocizzare un pò le tempistiche. Non si può sviscerare tutto, ma non per questo bisogna condannare al silenzio ciò che non è degno di un'analisi approfondita. Poi, chissà, in futuro...



Gangs of New York
Titolo italiano Regia Anno Genere Con
Gangs of New York
2002 Drammatico Leonardo DiCaprio,
Daniel Day-Lewis
L'America nasce nelle strade. Nella prima metà del 1800 New York è una città lasciata a sé stessa: nessuna legge, solo violenza e corruzione. È qui che il giovane Amsterdam Vallon torna per vendicare la morte del padre per mano del “macellaio”...


Gangs of New York, funziona a metà. È un film fortemente travagliato nella sua impostazione: il banale tema della vendetta cerca una rivendicazione identitaria venendo immerso in un contesto storico poco sfruttato negli anni recenti, quindi relativamente “nuovo”. Si parla dunque della New York durante il periodo della guerra di secessione, una città violenta in una nazione senza identità. Punto di vista interessante è quello di andare oltre la ricostruzione storica a posteriori e di ricreare il contesto nella sua formazione, e non partire dai suoi effetti. La grande liberazione di Lincoln viene vissuta al “contrario” dagli americani, gli stessi abitanti dei progrediti stati del nord sono razzisti e diffidenti verso i “negri”. Gli appartenenti al partito democratico non rappresentano il bene in senso puro, ma sono solo quelli che meglio sanno sfruttare la macchina politica e le sue falle. La portata rivoluzionaria della figura di Lincoln viene pesantemente ridimensionata e de-mitizzata. “L'America è nata nelle strade”, così anche la democrazia. 




Senza entrare nel merito della validità storica della pellicola, il problema è palese nella forma e non nei contenuti: la funzionalità del contesto si perde nella seconda parte del film dove la Storia, da semplice spazio di azione, diviene protagonista. Il film risulta allungato all'inverosimile, dispersivo, a tratti immobile. Si perde la volontà di attesa della risoluzione del conflitto tra i due protagonisti, e quando questo accade, lo scontro, inserito in un caos generale ben più ampio, ha perso la sua centralità.


La ricostruzione è, esteticamente, impressionante. In particolare, la fotografia e la regia di Martin Scorsese regalano delle battaglie molto coinvolgenti.


Ottima l'interpretazione di Daniel Day-Lewis. Il suo personaggio è l'asse portante di tutto il film, la finzione storica acquista credibilità già dalla sua semplice presenza. Ogni singolo aspetto è curato alla perfezione: il macellaio vive, suda, uccide. Postura, gestualità, niente fa pensare ad un attore. Questa forse è la vera arma a doppio taglio: tutto il resto del cast sfigura. Leonardo DiCaprio, interprete che nei suoi film più recenti si è dimostrato ben più che un semplice idolo delle teenager, stona pesantemente di fronte al suo avversario: è troppo pulito, troppo impostato, plasticoso all'inverosimile. La scena delle cicatrici sfiora il ridicolo: fisico scultoreo con qualche graffietto sul petto completamente depilato. Dall'altra un uomo con i capelli unti, un occhio di vetro e chissà quante pallottole in corpo. Difficile esprimersi su Cameron Diaz, belissima, ma ancor più di DiCaprio, viene offuscata dalla performance di Day-Lewis.


L'interpretazione di Daniel Day-Lewis vale da sola la visione del film.


Il finale, discorso valido anche per Collateral, nella sua voglia di giustificare il film, inconsciamente, non fa che condannarlo. Come i protagonisti della pellicola svaniscono vittime della Storia e del progresso che stratifica le città sulle tombe degli antenati (che il regista abbia capito che la sovrabbondanza storica è proprio il problema della pellicola?) così Gangs of New York finirà nel dimenticatoio della filmografia di Scorsese.


New York continua, il film cade nell'oblio.


Nota a margine: ho trovato fuori l'uogo l'antenata di Catwoman, ma una rapida ricerca su internet ha confermato i miei sospetti: Hell-Cat Maggie è un personaggio realmente esistito, con tanto di artigli come arma. Incredibile ma vero. Resta il fatto che non mi piace come il personaggio venga gestito da Scorsese, soprattuto nei combattimenti.



"Miao"



domenica 19 maggio 2013

Solo su richiesta [3]: Collateral


 
« Dai che mi proponi?»

« Eh, ora te lo dico io un filmone...»

« Si dai sono curioso, l'altra volta mi parlavi di..»

« Jim Jarmusch.»

« AH! Si dai finalmente qualcosa di atipico»

« Lo sai che io conosco un sacco di roba da intenditori.»

« Vero! Dai quindi?!»

« Collateral, quello con Tom Cruise.»

« Cazzo.»



Terzo episodio di solo su richiesta, questa volta commissionato dall'imprevedibile L.G.S. Da una persona poliedrica come L.G.S., mi sarei aspettato ben altri titoli. Tipo un film sulla Dave's Matthew Band, o gli aneddoti segreti della vita di Rory Gallagher. L'irlandesissimo (nel cuore) L.G.S., mi ha graziato reprimendo la sua vena nostalgica ed alternativa, assegnandomi un film tutto sommato parecchio mainstream e godibile. Premuroso L.G.S., ti ringrazio. La prossima volta però, niente Tom Cruise.


Solo su richiesta: Collateral





Collateral
Titolo italiano Regia Anno Genere Con
Collateral 2004 Thriller Tom Cruise,
Jamie Foxx
Max, instancabile sognatore, lavora da 12 anni come tassista di notte a Los Angeles. Ama entrare in contatto con i suoi clienti, condividere il viaggio. Fino a quando a salire sul suo taxi è Vincent, spietato killer venuto in città per compiere un lavoro...

"Lo sapevate Che Miles Davis era negro?" - Aneddotica alla L.G.S.


Rielaborazione di una delusione


Collateral è un po' infame. Per non dire stronzo. Si inizia alla grande, le premesse sono delle migliori. Ok, c'è Tom Cruise, ma pensi: ammazza non solo è cattivo, s'è fatto pure brizzolare i capelli. Stavolta sarà diverso. Poi, insomma. Ci rimani... male.
Come quando ti telefonano e ti chiedono se sei felice dell'aspirapolvere. Ecco! Quasi non ci credi, la persona che hai aspettato per una vita intera, finalmente è arrivata. La sconfinata gioia di aver trovato un vero amico, qualcuno disposto ad ascoltarti, ti fa tremare la voce, per poco non piangi. Proprio quando stai ad un passo dal confessare che non ti sei mai ripreso dalla morte del tuo primo pesciolino rosso (e sono passati circa 20 anni), un senso di disagio ti attraversa tutta la spina dorsale. Qualcosa non torna. Esatto: non gli importa nulla di te, vogliono solo appiopparti un nuovo aspirapolvere. Ti senti tradito, trattieni le lacrime, un impacciato “no, non mi interessa” e attacchi il telefono. Per carità, la vita continua. Però, per un attimo, ci avevi sperato. Apri lo sgabuzzino, guardi l'aspirapolvere ancora funzionante. Reprimi l'ennesimo conato di tristezza e trovi il coraggio di mentire a te stesso: “sticazzi”


Immagine trovata cercando su google "Tom Cruise Vacuum"

Collateral è un'occasione sprecata. Da un'ottima idea di base il film non riesce a svilupparsi in modo convincente. Certo, non scade mai nella mediocrità, ma una volta partiti i titoli di coda, l'impressione che si potesse fare di più è forte. Andiamo con ordine.


In bilico tra l'essenziale e lo scarno


L'ossatura centrale affascina nella sua semplicità: due uomini, uno dei due un killer, un taxi e nient'altro. Sullo sfondo, una Los Angeles buia ed isolata. È chiaro che, data l'impostazione claustrofobica, la sceneggiatura vive nel confronto tra i due protagonisti del film: da una parte Vincent (Tom Cruise), spietato killer nichilista, e dall'altra Max (Jamie Foxx), tassista ed irrimediabile sognatore. I problemi sorgono proprio nel loro rapporto conflittuale. Se i dialoghi risultano ben scritti e scorrevoli, allo stesso tempo però non impressionano abbastanza da giustificare le reazioni dei due. Soprattutto in quanto caratterizzati in modo così stucchevole da risultare bidimensionali: la scena di apertura in cui Max si presenta impressionando la tizia con le sue doti da tassista (geniale) e raccontandole il suo grandissimo sogno di aprire una compagnia di limousine (maledetti americani), più che di fronte ad un “buono”, ci sbatte davanti un santo, troppo perfetto per essere vero.




Si rimane parecchio perplessi quando, dopo qualche ora di sequestro, il buon samaritano che ha trasgredito nella sua vita solo una volta, dicendo una bugia (a fin di bene) alla madre sul suo lavoro, improvvisamente entra in un covo di mafiosi, si finge un sicario, azzittisce a suon di minacce degli scagnozzi e convince il loro capo a rilasciargli informazioni sulle sue prossime vittime. Rovescio della medaglia, il distaccato Vincent, nel suo disprezzo non solo per la società, ma per le contraddizioni interne all'animo umano, sviluppa un sentimento di empatia nei confronti di Max. Killer professionista che non spara meno di tre colpi a persona (non si sa mai), che uccide “perché sì, tanto siamo puntini insignificanti in un mare di nulla”, si affeziona ad una sua vittima. Lo aiuta col suo capo. Gli fa aprire gli occhi sul suo futuro. Gli salva anche la vita (poi tanto cerca di ammazzarlo). Perché? Non bastano dieci minuti di dialoghi energici, ma niente più, a cambiare così radicalmente due sagome di cartone. Non è parlando di karma e altre stronzate che si diventa spietati, e non si guadagna l'umanità parlando del proprio padre con uno sconosciuto. Il finale, conferma l'impossibilità di uscire da questo schema se non si costruiscono personaggi abbastanza forti. L'intento, purtroppo, non è questo.



Tom Cruise si ammira tramite lo specchietto retrovisore

L'importanza di chiamarsi... Tom


C'è da dire che la “naturale” conclusione del film ti sorprende. Per tutto il film pensi “qua finisce a tarallucci e vino”, ora arriva la fregatura. La paura che finisca tutto come non dovrebbe anadre deriva dal fatto che il cattivo è Tom Cruise. Veramente, credibilità zero. Non basta purtroppo la brizzolatura a farlo uscire dal personaggio che si cuce ogni maledetta volta addosso. Perfetto, troppo perfetto. Si ok è cattivo, ma è sempre il più forte di tutti. È il più bravo a sparare, a lottare, ha spiccate doti artistiche (grande intenditore di jazz... Tom, non ti regoli), grandissime capacità logico/deduttive ed è il maestro della fuga. In fondo la sua totale assenza di valori, la sua amoralità, non è neanche così condannabile: la chiave nichilista è facilmente condivisibile dal pubblico. Alla fine cioè, c'ha pure ragione e quasi ti dovrebbe dispiacere che lo hanno ammazzato. Ah, e muore in modo monumentale, da vero samurai: si sceglie la posa. Altro che uomo. Tom Cruise meglio di Mazinga.




C'è mancato poco


Nel complesso il film non stanca. Gestisce bene i pochi cambi di ambientazione e la regia si dimostra capace di adattare le diverse inquadrature: dalla claustrofobia dei primi piani in taxi, alle scene più popolate e movimentate nei vari club. L'azione scorre, è fluida, la tensione sempre palpabile. Manca però quel quid per farlo diventare un'esperienza memorabile.


Una delle migliori scene d'azione, gestisce la tensione ottimamente.


Collateral si prende sul serio, forse troppo, ed ha paura di sporcarsi. Segue la via già tracciata in precedenza da altri e non prova minimamente a sorprendere. Non ci si riesce realmente a perdere per le strade semi-illuminate di Los Angeles, non c'è una vera alchimia tra i due protagonisti. L'effetto collaterale della pretenziosità, è il non riuscire a coinvolgere lo spettatore. 


"Non sai che sonno, me so abbioccato in metro"


Il film finisce e muore. Difficilmente qualcuno se ne ricorderà.



lunedì 13 maggio 2013

Le voyage dans la Lune



Un fascino senza tempo: breve dichiarazione d'amore




1902



Più di cento anni fa nasceva la voglia di stupire. Con Le voyage dans la Lune, per la prima volta, ci si rende conto che si può andare oltre la rappresentazione teatrale. Viene alla luce la contraffazione, l'inganno. Il nuovo mezzo, nella sua macchinosità e limitatezza, richiede lo sforzo inventivo. L'uomo non è ancora padrone di ciò che utilizza, ma proprio per questo il rapporto non si può ancora invertire. Agli albori della fantascienza, è l'immaginazione che direziona la tecnica. È la volontà di cristallizzare l'immaginario a fornire il tragitto del viaggio. Solo così si sfondano le barriere del conoscibile e si concretizza il meta-fisico. 





L'approdo è rocambolesco: la nave si schianta, lo stile ancora non esiste. Ma è proprio in questo pastiche, in questo susseguirsi di quadri scollegati, che si gettano le basi per tutti i futuri possibili. Sorprendente diamante (ora) grezzo, Le voyage dans la Lune è il prototipo: è la creazione del Genio (lo stregone Georges Méliès) ad essere a sua volta generatrice di illimitate possibilità. Sarà sempre attuale perchè infinitamente stimolante e mai definitivamente esaurita nell'interpretazione.


Il film attinge, nella sua formazione identitaria, da diversi ambiti culturali


Le voyage dans la Lune, in un immagine: la Luna con l'astronave nell'occhio. Nasce il ciclope. Ed eccoli, uno accanto all'altro, "Un chien Andalou" di Luis Buñuel, "Film" di Beckett, "Historie(s)duCinéma" di Godard, Snake Plissken ed Elle Driver. Infinite riconfigurazioni, passate ma mai morte, di una stessa immagine, di una stessa volontà. Nasce l'immaginario nel cinema. Nasce l'immaginario del cinema.




Amo il cinema per il viaggio impossibile che propone. Il suo tendere all'infinito, il suo spingersi oltre. Capisco, ora, che non è semplice narrativa: è la potenzialità della narrazione attraverso l'immagine. Amo sentirmi spaesato.

domenica 12 maggio 2013

Metropolis

Metropolis
Titolo italiano Regia Anno Genere Con
Metropolis Fritz Lang 1927 Fantascienza Gustav Fröhlich,
Brigitte Helm
Nella futuristica e distopica città di Metropolis, il giovane Freder, figlio di Frederson, capo della città, entra in contatto con l'angelica Maria. Folgorato dalla sua visione, la segue nei bassifondi dove scopre le vere fondamenta della metropoli: il sudore degli operai, costretti a lavorare come schiavi....

 

Inizio a navigare nel mare dei film muti con Metropolis di Fritz Lang, film del 1927. Pellicola intenzionalmente monumentale, col tempo ha subito parecchi tagli alla sua durata originaria. Tra una censura e l'altra, la sua lunghezza iniziale di 153 min è stata quasi ricostruita interamente solo con l'edizione restaurata del 2010, che ammonta a 148 minuti. L'edizione in dvd in mio possesso dura circa 120 minuti, le scene censurate sono narrate attraverso scritte bianche su schermo nero. 

 

 

Città duplice


Il film ruota attorno alla tematica del doppio esplorandola su più livelli. Inannzitutto trova la sua identità estetica proprio nell'opposizione di diversi stili. Metropolis, città futuristica e distopica, vera protagonista del film, è intrisicamente spaccata in due. Esteriormente c'è la città in superficie, espressione massima della tecnica, dove trionfa un'architettura chiaramente ispirata all' Art déco. Ma esistono anche l sue fondamenta, vere e proprie sterminate prigioni dove gli operai lavorano e mantengono in vita la metropoli. Il sottosuolo è un luogo opprimente, tetro, dove sfilze di macchinari segnano rigidamente lo spazio. Così come i grattaceli aprono all'infinito con uno slancio verso l'alto, le teste chine degli uomini a lavoro infrangono il loro sguardo sui marchingegni che eliminano lo spazio vitale. Al lussurioso nightclub Yoshiwara fanno da contraltare le caverne/catacombe dove i ribelli si riuniscono per dare ascolto a Maria e ai suoi racconti dal sapore biblico. L'estetica cristiana è presa in prestito per fornire un carattere universale alla storia: l'attesa escatologica di un "mediatore" è qualcosa che esula dalla contingenza della narrazione, ma riguarda l'animo dell'uomo nel suo profondo.





L'uomo, la macchina


"Mittler zwischen Hirn und Händen muss das Herz sein"

"Mediatore tra la testa e le mani deve essere il cuore"

Nella morale a inizio pellicola, risiede il nucleo tematico del film. L'animo umano è scisso nel profondo, ma vive unito in questa contraddizione (importante la rievocazione del mito di Babele). Così è la città, così è chi la popola. La massima espressione della tecnica mantiene pur sempre un fondo di irrazionalità. La base è oscura, la folla è incontrollabile. Il popolo si configura come una massa indistinta, che distrugge e si autodistrugge. E' facilmente condizionabile e manovrabile. Deve esserci dunque una mediazione tra l'ipertecnicismo, la massima razionalità, e l'incotrollabile sete di rivalsa del popolo, l'impulsività animalesca. La soluzione è la mediazione del cuore tra la testa e le mani: il figlio del capo della città, primo tra i nobili, ma anche il più umano tra gli uomini.  Metropolis è in fin dei conti una storia d'amore. Tra Freder e Maria, ma anche tra gli operai e il padrone. Tra la testa e le mani. In mezzo, il cuore.




Giudizio sulla tecnica e sull'uomo


I due poli dell'animo, se presi singolarmente, sono giudicati in modo negativo dall'autore. Due sono gli esempi lampanti per quanto riguarda le potenzialità della "testa". Il primo è rappresentato nella scena in cui Freder scende per la prima volta tra gli operai. Qui, un guasto ad un macchinario provocato dai lavoratori esausti, provoca diverse vittime. La spietatezza della sequenza viene rielaborata dal puro protagonista in modo onirico, vive un'allucinazione. La macchina diviene il tempio del diavolo, Moloch, che reclama a sè la vita degli innocenti. 


Il negativo e l'irrazionale sono ineliminabili, anche nel più alto grado di tecnologia


Altro esempio è il personaggio del Maschinenmensch, reso incredibilmente dall'attrice Brigette Helm. Il robot (intuizione non di poco conto) indistinguibile sul piano fisico è quanto di più inumano possa esistere: esso è privo di volontà. Il suo agire dunque non è immorale, ma amorale in quanto segue gli input di programmazione. L'obiettivo non è perseguito in quanto meta ma in quanto ordine imposto.


La doppia interpretazione di Brigitte Helm si auto-esalta nella giustapposizione tra i due poli: Maria e il Mascinenmensch condividono lo stesso corpo, ma sono caratterialmente agli antipodi.


Per quanto riguarda il popolo, ovvero le "mani", il giudizio è altrettanto negativo. Se infatti la loro rivalsa è giustificabile, nella seconda metà del film ci si rende conto di come l'individualità venga a perdersi nella furia cieca della collettività. Anche qui cadono i criteri morali, tanto che la folla inferocita scambia il riscatto sociale, la libertà tanto agognata, con l'autodistruzione (rischiando di annegare tutti i loro figli).


Le scene collettive, in queste rabbiose esplosioni di violenza, sono forse le più impressionanti di tutta la pellicola.


sabato 11 maggio 2013

The Shape of Things to Come

Le cose iniziano a prendere forma, necessariamente ci si scontra con la realtà. Il primo grande impatto frontale è stato con la mia ignoranza: di questo ne devo tener conto. Ignoranza, se volete, duplice: mancanza consocitiva della grammatica cinematografica da una parte e dall'altra un vuoto cosmico sulla storia filmica. Come fare per rimediare? Per il primo ostacolo dovrò studiare, il problema risiede non tanto nel come, ma nel quanto. L'esigenza critica su quali basi si può e si deve fondare? Qual è il bagaglio culturale che permette la libera espressione? La seconda deficienza, connessa strettamente con la prima, si risolve con l'esperienza: guardare film per ricostruire il percorso.
Il rischio è quello di cadere nella ridondanza (non a caso il nome del blog), l'entusiasmo di scoprire l'acqua calda. Questo passaggiò, seupper nella sua banalità, è inevitabile. Da questo post in poi seguiranno altre recensioni, ma con una consapevolezza diversa: la consapevolezza dei propri limiti. Se poi non ho mai veramente proposto delle recensioni in quanto tali, con tanto di voto finale, è perchè non è mai stata mia intenzione. In ogni caso l'intento del giudizio verrà messo da parte, ma non eliminato, per fare spazio ad un approccio più auto-didattico e formativo. Il modello sarà più quello dell'articolo dedicato all'Angelo Sterminatore che quello di Drive.  Proverò allo stesso tempo di rendere più snello gli articoli e il lavoro che essi richiedono, cercando di non fossilizzarmi troppo su un singolo film.
Il layout del blog ha già subito una modifica: sulla destra ora verranno visualizzati tutti i film visti di recente e magari linkate le loro relative recensioni: così da creare una sorta di mappa (esortativa) verso la scrittura in sè e l'organizzazione di questo blog.
Le recensioni su richiesta rimarrano, in quanto ottimo esercizio di stile. Senza tralasciare il fatto che mi diverte molto scriverle.
In the Mailbox, seppur contenutisticamente sterile, è una teca a cui non mi sento di rinunciare: il mio spirito collezionista mi spinge all'organizzazione e alla condivisione delle mie passioni.
Per il resto non esistete, sono stato anche troppo gentile a spiegare quello che sta per succedere.


Non c'entra niente, no. Ma lo sapevate?

In the Mailbox [6]: Una promessa è una promessa

La fine di un sogno chiamava l'astinenza dagli acquisti compulsivi. Oggi però, come il più incorreggibile dei tossicodipendenti, ci sono ricascato. Si, lo so, il valore di un impegno, l'importanza dell'atto morale del rispetto della parola data, ma che ci posso fare? Una promessa è una promessa, e per parafrasare l'indimenticabile Arnold Schwarzenegger nel fantastico Jingle all the way:

Chivvesencula

Due acquisti musicali, vere pugnalate ai miei risparmi, perpetrati nel negozio Pink Moon Records di Roma. Come riesco a capire se un negozio mi può offrire qualcosa di interessante? Tre piani zeppi di dischi e vinili. Ci sono un'infinità di gruppi, sconosciuti anche a me. Ma, quando alla domanda (non mia) "avete qualcosa dei Led Zeppelin?" si riceve come risposta un secco "no", io mi eccito come non mai. Amo frugare nel non-famoso.

Dunque, dicevo, primo acquisto di due:




Leviathan dei Mastodon. Uno degli album a cui sono più affezionato in assoluto, a quasi dieci anni della sua uscita conserva ancora tutta la sua irruenza e la sua potenza distruttiva. Caratteristiche che, per fare un esempio, The Hunter, loro ultima fatica, probabilmente non ha mai avuto.




Vinile singolo, confezione "gatefold". L'artwork, di Paul Romano, non smetterà mai di affascinarmi. Su vinile poi, fa la sua porca figura. 




Essendo la quinta ristampa è presente all'interno un miniposterino con i credits da un lato e i testi dall'altro. Inoltre il vinile orange marbled è.... non riesco ad esprimerlo a parole. Andiamo avanti...




Secondo ed ultimo acquisto, ecco In The Absence of Truth, album del 2006 degli Isis. Gli Isis, senza dubbio, occupano un posto speciale nel mio cuore. Conosciuti relativamente tardi, circa nel 2009 con l'uscita del loro ultimo album Wavering Radiant, sono riuscito a vederli dal vivo una volta. Pochi mesi dopo si sono sciolti, lasciando dietro di sè una discografia non estesissima, e un ricordo di un concerto indimenticabile all'Alpheus. Questo album in particolare, si colloca esattamente a metà tra il minimalismo ossessivo di Oceanic e Panopticon e la complessa ed estenuante ricerca compositiva e sonora della loro ultima opera.




Qualche accenno sulla front cover. Togliendo la busta esterna scompare anche il logo della band, lasciando spazio all'artwork nella sua interezza. La copertina è ruvida, scelta stranissima. Sono parecchio interessanti le parole rilasciate da Aaron Turner a proposito della veste grafica (come non mai fortemente connessa alle oscure tematiche dell'album): 

"the songwriting and the artwork come from the same place. [...] It is sort of at the heart of what was writing about. And also, there's a progression of ideas from this very tightly bound, opaque mass into something that eventually starts to split up and open up and evolve into nothingness."


Maestoso

Poco altro da aggiungere, senonchè l'album è su doppio vinile (colore nero). Tutto il resto è lasciato alla percezione.




 "Nothing is true, everything is permitted" - Hassan-i-Sabbah


Out!

venerdì 3 maggio 2013

In the Mailbox [5]: La fine di un sogno

La crisi, i soldi, le solite cose. Arriva oggi l'ultimo pacco. Ultimo perché, come preannunciato, le finanze scarseggiano e probabilmente mi prenderò una pausa forzata dagli acquisti compulsivi (domanda: se sono compulsivi, come fai ad importi razionalmente una pausa. Risposta:...). Comunque suona il citofono, è il corriere. Baci, abbracci, e arriva lui:


BAM!


Così grande che per imballarlo è stato necessario appallottolare almeno un quotidiano intero. Roba seria. Togli qualche kilo di fogli di giornale e cosa trovi? Allora...




Si parte subito con due Dvd non proprio miei, anche se per ora li ho pagati io. Si tratta del magnifico Cattivissimo Me della Universal Pictures e del "ancora-non-l'ho-visto" Kung Fu Panda 2 della DreamWorks Animation




Passiamo ai dvd da veri uomini (non ci sono prove che io mi sia commosso con il finale di Cattivissimo me). Edizione Speciale su due dischi del primo Halloween - La notte delle streghe - del mai abbastanza adorato John Carpenter. Pagato una miseria, il secondo disco di contenuto extra non sembra interessantissimo, ma un'occhiata non si nega mai. Con Carpenter non abbiamo ancora finito ma, insomma, abbiate pazienza. Andiamo in ordine...




Eraserhead di David Lynch. Proprio ieri guardavo un video di Frusciante dove affermava che non esiste una versione distribuita nelle sale Italiane del lavoro di Lynch e che probabilmente manca all'appello anche l'edizione in dvd. A quanto pare, si sbaglia. Ora: amo Lynch. Ma l'eccitazione (metaforica... e anche un pò fisica) schizza alle stelle quando ti rendi conto che è un'edizione a cura di Ghezzi e che dentro c'è un booklet pieno di foto e sproloqui in due lingue diverse. Dio, godo. (e comunque il film non esiste in italiano ma sono in lingua originale con i sottotitoli)








Ultimo dvd, À bout de souffle, in Italia conosciuto come "Fino all'ultimo respiro" di Jean-Luc Godard. Film di cui non so molto, ma l'ho preso perchè appartiene alla stessa collana dell'edizione di Essi vivono che possiedo. Confezione con una bella grafica e all'interno un booklet curato dalla rivista Duellanti, nel caso particolare da Carlo Chatrian.








Passiamo ora ai Blu-ray. Ecco che torna Carpenter con Fuga Da New York, edizione scialba ma film immancabile sullo scaffale.



Secondo Blu-ray: Videodrome di David Cronenberg. Inizio a colmare le mie grandi lacune, ed ecco che mi appresto a vedere per la prima volta un film di Cronemberg. Ho scelto questo perchè, insomma, la storia del "body-horror" non mi pare molto rassicurante. (Devo ancora trovare il coraggio di vedere La Cosa di Carpenter)














Ed ecco il pezzo forte. Mega-cofanetto in blu-ray dedicato a Stanley Kubrick. A parte i primi corti, c'è tutta la sua filmografia (peccato per l'assenza di Paths of Glory). In più anche un dvd Bonus che contiene il documentario sulla vita del regista narrato da Tom Cruise (brrrr) A life in pictures e un film sulla carriera di Malcolm McDowell dal titolo O Lucky Malcolm! Chiude la confezione un simpatico libricino con foto e informazioni sui film presenti, carino ma trascurabile.

Credo di aver detto più o meno tutto. I post futuri non so cosa riguarderanno, ho visto Metropolis di Fritz Lang e magari potrei farne una breve recensione. Vorrei anche iniziare un "ciclo" Kubrick e seguire passo passo la visione con dei post per riorganizzare le idee. Chissà. Non voglio illudere il mio (inesistente) pubblico con false speranze. Chissà. Chissà. Chissà.





Ommioddioquasidimenticavo è uscito il nuovo cd della collana Pink Floyd. Ottava uscita, è il turno di A Momentary Laspe of Reason. I Pink Floyd sono la più grande mancanza nel mio bagaglio culturale, e questa riedizione è la spinta che aspettavo per colmare questa voragine. Per ora sto amando Animals, Wish You Where Here ed Atom Heart Mother (la title track è fenomenale). Un pò eccessivo UMMAGUMMA, bello ma eccessivamente anni 80 nelle sonorità quest'ultimo uscito e dimenticabilissimo The Division Bell. Le prime due uscite The Wall e The Dark Side of the Moon le devo ancora recuperare, però questi già li conoscevo. Ok, ora ho detto proprio tutto. (la prossima uscita è Meddle!)


Il sapersi imporre.


OUT!

giovedì 2 maggio 2013

Solo su richiesta [2]: Il Grande Lebowski



« Recensisci Il Grande Lebowski.»
« Dai, un film così bello ed importante?»
« Mi ha fatto schifo.»
« Cosa?!? Ma come, c'è il Drugo che...»
« Mi ha fatto cagare.»


Se demolire qualcosa di sgradevole è uno degli atti più naturali, e risultare simpatici nel farlo è di una semplicità sconcertante, la situazione opposta mette in crisi. Parlare male di qualcosa che ci è piaciuto non è una semplice forzatura, è proprio impossibile. Lo metto subito in chiaro: Il grande Lebowski è un ottimo film. È divertente, fa ridere. Insomma: funziona. Il rigido H., committente di questa recensione, non riesce a capire cosa ci sia di simpatico nel Drugo e nella sua strampalata avventura. Questo, è un problema. Perchè, ok: i gusti sono gusti, non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, e tanta, TANTA, altra saggezza popolare, ma in quanto fervente sostenitore della presenza di un certo criterio di oggettività nel mondo, che trascende i nostri sensi e la nostra opinione (grazie, Immanuel), non posso certo accontentarmi del grandissimo classico“la pensiamo in modo diverso, pace”. Nel rispetto dell'opinione altrui, non si può neanche spiegare come e quando bisogna ridere, è un discorso che non ha senso. Si, insomma, secondo episodio de “solo su richiesta” e già mi sono impantanato. Cosa fare? L'unico atto possibile è quello di indagare il punto di vista con cui si approccia il film. Due piccioni con una fava: rispetto il giudizio del severo H. e rendo giustizia al contenuto dell'opera dei fratelli Coen. Semplice no? In realtà no. Recensire un giudizio su una pellicola, per correggerlo e ricavarne così una nuova recensione. Argh. Malefico H., hai complicato le cose.


Solo su richiesta: Il Grande Lebowski



The Big Lebowski
Titolo italiano
Regia
Anno
Genere
Con
Il grande Lebowski
Joel Coen
Etan Coen
1998
Commedia
Jeff Bridges,
John Goodman
Jeff “Drugo” Lebowski è uno slacker, un vero parassita della società. Tra una partita a bowling e uno spinello la vita, passata in accappatoio, scorre senza pensieri. Un giorno però, tornando a casa, è vittima di un'aggressione: due loschi figuri pisciano sul suo tappeto. In cerca di un riscatto morale, il Drugo si caccerà in una storia ben al di furoi della sua comprensione...

 

 

Non essere apprezzati: a volte capita.

 

 

In principio, non rideva nessuno


Partiamo da un dato di fatto. Il grande Lebowski alla sua uscita, è stato accolto molto freddamente: pochissimi incassi e semi-bastonato dalla critica. Il poco-divertito H. può tirare un sospiro di sollievo: non è stato certo l'unico a non apprezzare il film. Il problema nasce dal fatto che, col passare del tempo, la pellicola è divenuta un “cult-movie”. Un fenomeno non solo americano, ma internazionale. Il suo gradimento non è legato a un determinato contesto culturale. Si potrebbe pensare “bowling, slacker, cowboy e Tara Reid: puoi ridere solo se sei uno yankee”, ma niente. Piace proprio a tutti. La difficoltà iniziale però rimane, e va segnalata: non è un film così immediato come si potrebbe pensare. Va inquadrato e contestualizzato, altrimenti qualcosa si perde.


Attento che ora arrivano i paroloni difficili...


Idiosincrasia e percorso onirico


Lo ammetto: è scrivendo questo post che mi sono imbattuto nel termine “idiosincratico”. Non lo scrivo per darmi delle arie pseudo-intellettuali, ma proprio perché, come termine, descrive alla perfezione il Drugo. In letteratura il personaggio idiosincratico è quello che si genera dal nulla: non segue nessuno schema prefissato, non si riallaccia a nessun topos preesistente. Non è né un eroe, né un anti-eroe: non ha precedenti. Nasce qui, molto probabilmente, l'avversione ed il distacco, o meglio, la non comprensione dell'infastidito H. Però la creazione idiosincratica va oltre l'iniziale senso di smarrimento dettato dalla mancanza di punti di riferimento: l'antipatia si rovescia, incredibilmente, nella familiarità. Si crea una grammatica ed un contesto, il nuovo linguaggio viene accettato. L'identità istituita si muove su un piano trasfigurato, prettamente onirico. Anche su un livello generale, limitato in partenza al protagonista ed ora sfociato nella totalità della struttura narrativa, il riconoscibile e l'estraneo continuano a coesistere. Così la noia esistenziale, immersa nello squallido contesto culturale della Los Angeles fine anni 90, viene trascesa in una sur-realtà che destabilizza. La partenza e l'arrivo sono una partita a bowling, il percorso è l'assurdità più totale (da qui la centralità delle due scene oniriche). Che l'abitudinario H. ami viaggiare solo su binari già tracciati?


Immaginario monotematico.


Presentano: i fratelli Coen


Accettate le premesse (non necessariamente in modo conscio), il film si rivela incredibile in ogni suo aspetto. I fratelli Coen, alla regia, non deludono affatto (le già menzionate scene oniriche sono visivamente impressionanti). Ottimo cast e fantastica colonna sonora (la presentazione di Turturro con “Hotel California” versione spagnola in sottofondo, è geniale). Sostanzialmente è un film che ha un ritmo forsennato che tiene incollati allo schermo per tutta la durata: 120 minuti non sono certo pochi, ma non si accusano minimamente. Saranno i personaggi “idiosincratici”, o forse l'alchimia tra di essi che crea dei dialoghi assurdi ma allo stesso tempo divertenti: in ogni caso, non ci sono momenti di stanchezza. Così tra una pisciata su un tappeto e un finto rapimento andato male, succede di tutto: una miriade di personaggi e di situazioni si succedono senza un attimo di pausa. Tutto poi assimilato dal punto di vista “rallentato”, un po' per scelta di vita, un po' per l'eccesso di spinelli, del protagonista, interpretato da Jeff Bridges, vera colonna portante del film.
A parte questi brevi accenni di carattere generale, non analizzo nessuna scena in particolare perché sarebbe un torto parlare di ciò che, sostanzialmente, va visto. Non mi sento di mettere in evidenza né un punto particolarmente riuscito né uno che fa storcere il naso: nel complesso, ritengo non ce ne siano.


"Lenin, non Lennon!"


Quindi?


Il punto di vista dell'indispettito H. è comprensibile, ma non necessariamente condivisibile: Il Grande Lebowski non è il capolavoro che molti, con un eccesso di entusiasmo, ritengono. Non è, però, neanche un film stupido e privo di idee. Anzi, in questi termini, ne è sovrabbondante. È proprio questo suo eccesso di stile, questa sua forte caratterizzazione, che lo porta ad essere una storia non per tutti. Vanno accettate, o meglio, riconosciute, delle premesse, e da lì può iniziare l'apprezzamento. Che diverta o meno, si cade, purtroppo, nel gusto personale. Non si può, però, negare la validità ad un prodotto confezionato in maniera superba che riesce, in un mare di mediocrità, a rivendicare una sua identità precisa.

Gentile signor H., si ravveda.


Indimenticabile