mercoledì 19 febbraio 2014

La Voce della Luna [Fellini Checklist 24/24]

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E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore” - Ciàula Scopre la Luna, Luigi Pirandello, Novelle per un Anno.







“La voce della Luna” è la fine di un viaggio. E in quanto tale è giusto che inizi in un cimitero. Non si respira, però, aria di morte. L'infinita notte che permea tutto il film, non rappresenta l'oblio dei sensi ma è il buio rievocato da Mastroianni in "Ginger e Fred". È quella zona di confine, al di là della percezione, oltre la razionalità, a cui Fellini ha sempre puntato. “La voce della Luna” è la teofania del ricordo, il panteismo felliniano è ormai completo.







Vi parlo dal pozzo. Qualcuno sente? Non so dirvi cosa... Ma un giorno succederà. Divertitevi a scoprirlo. Anche se forse non sarà un evento. Oppure non sarà simpatico. Imparate a flettervi. Le persone a volte non esistono. Diventano solo parte degli eventi. Imparate a flettervi, e sopravviverete.” - Distopi, Uochi Toki







L'atto ultimo di Fellini è la conquista della natura e delle sue leggi. I suoi spettri sono un tutt'uno con il mondo, lo abitano e lo modificano. Gli uomini divengono alberi, dialogano con le viscere della terra attraverso i pozzi e seducono la luna. In questa congiunzione totale tra cinema e materia, tutte le grandi problematiche della filmografia di Fellini sembrano risolversi. La ricongiunzione con l'immagine della donna/madre viene abbandonata nella divertita accettazione dell'eterogeneità del sesso femminile. Il “vero” ballo del prefetto Gonnella (Paolo Villaggio), incarnazione del bello artistico, viene riconosciuto ed assorbito da una caotica folla di giovani. La chiave della riconciliazione risiede quindi nell'abbandono di sé, nel divenire parte di un processo fluido e contraddittorio. Qualsiasi pretesa razionale è definitivamente infranta: il mondo di Fellini non ha più bisogno di spiegazioni.







Non devi capire, guai a capire! E che faresti dopo? Devi solo ascoltare, solo sentirle quelle voci e augurarti che non si stanchino mai di chiamarti


Ma il pericolo è dietro l'angolo. L'esperienza ricercata per una vita intera è a rischio. Perché lo schermo sembra ormai pensato solo per defraudare lo spettatore. La Luna, guida e punto di riferimento, tradisce Ivo Salvini (Benigni) e tronca il dialogo per annunciare la pubblicità. L'interruzione viene dal nostro satellite (grandissima intuizione): la televisione ha cambiato le regole del gioco. Fellini, giunto al termine, sceglie il silenzio. Ci lascia così, senza una vera soluzione, al buio, privati anche della Luna. L'unico gesto possibile è quello di interrogare il pozzo, rivolgere lo sguardo dentro se stessi, in cerca di quell'idea inafferrabile che potremmo chiamare “verità”. Così che il ricordo, superi la morte.






Come mi piace ricordare, più che vivere. Del resto, che differenza fa?

martedì 18 febbraio 2014

Intervista [Fellini Checklist 23/24]

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“Intervista” è l'ennesima indagine autobiografica portata avanti da Fellini. Impostazione che caratterizza gran parte della sua cinematografia a partire dagli anni '70 in poi, il raccontarsi diviene una vera e propria ossessione del regista. Il compito ultimo del cinema sembra quello di essere testimone e testamento allo stesso tempo. Lo sguardo indietro travolge un'intera epoca fino a richiudersi nell'esperienza privata dell'autore. “Intervista” è l'elemento finale di questo percorso a ritroso, dove per l'ultima volta, Fellini racchiude tutta la sua arte, i suoi sogni, la sua vita.







Dopo l'omaggio a “Roma”, città adottiva, la memoria non può che soffermarsi sul luogo che ha reso possibile ogni mondo altrimenti impossibile: Cinecittà, la romana fabbrica dei sogni. Sono di nuovo le soluzioni formali a lasciare stupiti. È incredibile come dopo quarant'anni di carriera Fellini riesca ancora a sorprendere lo spettatore re-inventando ogni possibile narrativa. Realtà, finzione e finzione nella realtà si danno continuamente il cambio in una danzare incessante che non vizia mai l'attenzione dello spettatore. Fellini, genio per eccellenza, riesce ad abbattere qualsiasi barriera razionale, tutto è credibile: il suo cinema non fa altro che affermare la totale coincidenza tra sogno e realtà al di là dei film, oltre la vita. Fellini rimarrà per sempre incastrato tra passato, presente e futuro nella continua riproposizione delle sue pellicole. Tutta la sua vita, non è stata altro che il fantastico racconto di un visionario.







Intervista” è quindi il momento massimo di riflessione autoriale a cui giunge Fellini, e probabilmente il miglior risultato. L'incontro dopo trent'anni di Anita Ekberg e Marcello potrebbe da solo racchiudere tutta la cinematografia del regista. Nell'intenzione, nel modo, nei tempi, ma soprattutto negli sguardi commossi dei due vecchi attori risiede un segreto inconfessabile: un dono eterno, che sopravviverà a tutti quanti. Il film (e perché no, tutta una carriera) potrebbe chiudersi così, nella commozione verso il passato che però è anche l'orgoglio di un successo. Ma Fellini decide di donare quel “raggio di speranza” tanto agognato in passato dai suoi produttori. E il ciak torna a battere riazzerando la realtà, pone un nuovo inizio oltre la fine. L'addio, non sarà mai definitivo.







Ascoltandoli pensavo che mi stessero preparando le delizie di un addio” - Marcel Proust, I Guermantes, Alla Ricerca del Tempo Perduto

lunedì 17 febbraio 2014

Ginger e Fred [Fellini Checklist 22/24]

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Per Fellini, “Ginger e Fred” segna la chiusura di un cerchio. L'amarcord diviene oggetto di sé stesso. Il ricordo re-immaginato dal cinema è la sua medesima storia, non la vita che lo precede. Ogni singola inquadratura racconta e si confronta con il Fellini regista, prima ancora che uomo. È incredibile come l'autore riesca a fondere narrativamente diversi piani concettuali senza mai però interrompere l'indefinito equilibrio che domina tutto il film. Ginger e Fred sono, in primo luogo, il simbolo del cinema, non solo americano. Rappresentano quel punto di unione tra storia e performance che Fellini ha sempre cercato di ricreare in ogni sua scena: quella fusione tra potenza dell'immagine e meraviglia circense, vera magia, che solo il cinema riesce a trasmettere. Ma Ginger e Fred sono anche Giulietta Masina e Marcello Mastroianni. Più di due semplici attori feticcio, sono il punto massimo dell'autobiografismo filmico di Fellini, ancor più di quando decideva di farsi inquadrare personalmente. Il loro volto ha incarnato la visione del regista innumerevoli volte e, proprio come Nino Rota, i loro personaggi sono cresciuti ed invecchiati ad ogni film. La vecchiaia che abita le loro facce in “Ginger e Fred”, è il segno di un percorso durato trent'anni, la traccia indelebile di una magnifica storia.











“Ginger e Fred” non è solo una rievocazione nostalgica del passato, è un confronto diretto con il presente. È la problematica presa di coscienza della sparizione dello spazio proprio dell'arte. La Gloria N. de “E la Nave Va” è stata definitivamente abbattuta da una società in continuo progresso. La cultura di massa ha inglobato qualsiasi forma espressiva ed ha imposto i suoi tempi ed i suoi luoghi. La televisione ha assimilato il cinema in modo subdolo ed ha degradato i suoi prodotti a merce di consumo. L'immagine è diventata pubblicità. Ciò che in “Le Tentazioni del Dr. Antonio” era solo un pretesto comico è, a conti fatti, un'intuizione sociologica di non poco conto. La tv non ha fatto altro che risemantizzare il linguaggio filmico riempendo l'immagine di vuoti rimandi sessuali. L'estetica è ricondotta al sesso, tutto è volto all'eccitazione dello spettatore ormai incapace di associare il desiderio ad un contenuto determinato. Nel piacere della pubblicità, lo spettatore diviene consumatore.







La grandezza del cinema di Fellini è quella di aver sempre rivendicato un'autonomia essenziale. L'immagine si è sempre presentata come altro dalla realtà. Un di più spettrale, un residuo visivo impercettibile che nel suo manifestarsi trasfigurava completamente il mondo, e con esso, chi guardava. Il cinema di Fellini non poteva essere altro che uno spirito indefinibile. Sono gli stessi Ginger e Fred ad ammetterlo. Di fronte alla fame insaziabile dei telespettatori, però, questo non è possibile. La forzatura massima della televisione è consistita nell'abbattere la linea di confine tra l'inafferrabilità dell'immagine e la realtà. È piombata prepotentemente nello spazio comune e condiviso, ha piazzato schermi ovunque, ha distrutto la singolarità di ogni possibile esperienza. È divenuta semplice conferma del mondo che l'ha generata, uccidendo qualsiasi alternativa dell'immaginazione. Le luci del varietà sono diventate l'unica possibilità di esistenza dello spettatore. Nel buio totale del black-out è la vita stessa a fermarsi.
Proprio qui, invisibili e intangibili, Ginger e Fred trovano la loro verità. Nell'essere per sempre fuori dal tempo e sfuggevoli allo sguardo. Nell'essere il negativo che riusciva a muovere, in qualsiasi direzione, lo spettatore. Il cinema di Fellini sarà per sempre fantasmagorico.

Ma lo sai che non sto niente male qui? È come nei sogni, lontano da tutto. Un posto che non sai dove sia, come ci sei arrivato. […] Siamo dei fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno




domenica 16 febbraio 2014

E la Nave Va [Fellini Checklist 21/24]

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Per Fellini, gli anni '80, terza decade dietro la macchina da presa, si erano aperti con due tentativi falliti di rinnovamento forzato del proprio cinema. Quello che potremmo definire il filone “politico-sociale” giunge al suo massimo ne “E la Nave Va”, dove il regista riesce nell'impresa di ricongiungere sul grande schermo le sue immagini e il mondo che lo circonda. Superando l'ultimo, e più difficile ostacolo espressivo, è nello spazio delimitato della “Gloria N.” che Fellini tira le somme di tutta la sua cinematografia. Colpisce significativamente la mancata identificazione con il narratore, figura sbeffeggiata sin da “Amarcord”, ma sempre presente. È comunque il cinema a riflettere su se stesso ma nel farlo, impone l'obbligo di trattarsi da estraneo. Fellini sceglie di non comparire (anche nella meta-apparizione finale), non tanto per mantenersi esterno al racconto, ma proprio per non porsi, con la sua concretezza, separato dalla sua creatura. Il travestimento, l'alter-ego maschera/clown, è la condizione necessaria per poter affrontare la propria interiorità.






“E la Nave Va” è, allo stesso tempo, un biglietto da visita e una lettera d'addio. Fellini, come mai prima, riesce ad unire pensiero e ricordo, “8½ ” ed “Amarcord”, omaggiando in modo tenerissimo il cinema e la vita. È la scena iniziale a dircelo: è il cinema ad avere vita propria, qualsiasi sia l'epoca e indipendentemente dalla tecnica, ci sarà sempre un mezzo, una nave pronta al racconto. Il film è la nave, lo spazio della messa in scena, l'unico luogo possibile dove può risiedere l'arte. Prima di tutto, però, la scelta della musica: forse la decisione che più commuove, è l'aver voluto raccontare il proprio cinema tramite l'omaggio a Nino Rota, compagno di viaggio di una carriera (vita) intera. Di fronte al funerale della musa scomparsa, è il film stesso a volersi musica. È solo con essa che trova la parola, unicamente in essa trova il suo compimento. L'ombra della perdita presente in ogni nota, è il sincero commiato di Fellini a l'unica altra persona che riuscì a rendere tale la magia di ogni suo film.






Quello che rende “E la Nave Va” la pellicola di Fellini più completa ed unitario dai tempi de “8½ ”, è il modo in cui riesce a porsi dialetticamente con il mondo e la Storia. Lontano dalle crisi sociali, il film evita qualsiasi riferimento diretto alla contemporaneità (niente sindacati e femminismo) collocandosi temporalmente agli albori del 900. Ma in questo maniera non avviene un rifiuto della realtà, anzi rappresenta proprio il distacco necessario ricercato a lungo. Fellini arriva ad intuire che, affinché il cinema possa parlare del proprio tempo onestamente, non può farlo in modo volontario. La vita, nella riflessione senza tempo dell'arte, è solo un sotto-testo, un imprevisto non voluto. In questo “E la Nave Va” ricorda tantissimo il Jean Renoir de “La Regola del Gioco” o volendo il Luis Buñuel de “Quell'Oscuro Oggetto del Desiderio”. La riflessione lucida de “ La città delle Donne” è un vicolo cieco senza uscita. L'unica possibilità di dialogo tra arte e sguardo politico è l'annullamento della prima nella contaminazione della seconda.






Nel drammatico scontro tra il cinema e la realtà, Fellini si dichiara sostanzialmente sconfitto. Un film non potrà mai essere testimone della Storia (l'incapacità di determinare il motivo dell'attacco della nave austro-ungarica, tramite la decisione di mostrare la stessa scena più volte, ogni volta leggermente modificata, è una soluzione già utilizzata da Buñuel ne “L'Angelo Sterminatore”). È in questa incapacità, però, che l'arte decide di morire in piedi. Fellini non verrà mai fagocitato dalla realtà, la sua opera si pone al di là di ogni narrazione. La consapevolezza della finzione, l'apparire del set, è la rivendicazione di autonomia massima. Fuori dal tempo, il cinema potrà raccontare di nuovo la sua storia. E la nave, per sempre, va.



sabato 15 febbraio 2014

La Città delle Donne [Fellini Checklist 20/24]

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Sebbene “La Città delle Donne” segni il ritorno di Fellini al grande schermo dopo l'ennesima esperienza televisiva, il film presenta le stesse problematiche del docufiction “Prova d'Orchestra”. Lo scontro frontale con la realtà e la sua parodizzazione, manifesta pretesa politica ormai presente nel cinema di Fellini, è un elemento che il regista non riesce a domare in pieno. Fellini cerca di far irrompere il presente nel suo mondo, di attualizzare la sua visione per strapparla dalla riflessione astratta. “La Città delle Donne” è quindi un tentativo di ripresa dell'universo a sé stante de “La Dolce Vita” e “8½ ”, dove l'autore cerca di concretizzare e modernizzare un'esperienza sostanzialmente unica e irripetibile. Il riferimento, vero e proprio ritorno, lo si intuisce da subito: Mastroianni protagonista, alter-ego prediletto di Fellini, incarna ancora una volta un personaggio in balia degli eventi, o ancora meglio, della sua fantasia. Snaporaz, uomo vittima dei suoi stessi sogni e Guido Anselmi, regista in crisi, sono solo differenti incarnazioni della stessa figura archetipica tanto cara a Fellini. Il regista nelle due pellicole, non fa altro che sviscerare a fondo due configurazioni di un unico io.
In cosa differiscono dunque i due film?









Innanzitutto “La Città delle Donne” è un'indagine lucida e razionale sulla figura femminile nella società moderna, e tradisce la sua superficie di racconto onirico. L'elemento surreale, base fondante in “8½ ”, qui risulta essere soltanto un pretesto narrativo: l'esplorarsi lascia il posto ad una ricerca ambiziosa. In quanto tale, esige e pretende una soluzione. Questo il limite insormontabile del film: i capolavori di Fellini, tra i quali “8½ ” è la vetta massima, si ponevano in un rapporto di reciproca influenza con il proprio autore, anzi lo sovrastavano. Era lo stesso Fellini a lasciarsi trasportare dall'idea, ad inseguire un sogno meschino, ormai svanito ed irraggiungibile. L'universale fascino che riusciva a suscitare, derivava si da una profonda analisi introspettiva, ma la volontà del regista si annullava completamente in essa. Solo così si generava una sincera riflessione sull'arte e sul mondo, senza limiti e confini. Più di un quarto di secolo dopo, Fellini cerca di replicare la magia, ma è una strada che non può essere battuta razionalmente e il risultato è fallimentare, a partire dall'intenzione.








Ciò che rimane è l'immancabile bellezza del cinema felliniano. Un'identità estetica inesprimibile a parole, che vive di immagine pura, unita a intuizioni mai ridondanti. Però questa volta manca il collante che riusciva ad unificare la potenza della visione in un unico atto di fruizione. La sensazione che trasmette “La Città delle Donne” è quella di un continuo esercizio di stile che non riesce a connettere le sue immagini in un tessuto organico. È proprio con questa assenza che ci si rende conto quanto determinante fosse la storia nella fruizione dello sguardo di Fellini. La narrativa scollegata ed episodica de “La Dolce Vita”, l'incedere rapsodico di “8½ ”, l'eccessivo barocchismo de “Giulietta degli Spiriti”, il pretesto storico-letterario de “Satyricon” e “Casanova” (vere e proprie reinterpretazioni tanto da necessitare il nome del regista nel titolo) divengono elementi importanti tanto quanto la forma/immagine nel ripensamento della cinematografia del regista. Senza un apparato narrativo stratificante, la visione si perde nel volgare e nel ridicolo. Il confine tra il sensato e il pretestuoso viene tristemente abbattuto: “La Città delle Donne” si auto-demolisce nel suo desiderio programmatico di voler colpire lo spettatore, nel voler disturbare il suo sguardo. Fellini, per la prima volta orfano di Nino Rota, fallisce nell'ingenuo tentativo di cercare l'ispirazione ripercorrendo i suoi passi. “La strada” è un'altra.




venerdì 14 febbraio 2014

Prova d'Orchestra [Fellini Checklist 19/24]

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“Prova d'Orchestra” è l'ennesimo film da inserire nel filone delle “docufiction per la tv” che negli anni '70 (precisamente dal 69 con “Block-Notes di un regista” al 79, con “Prova d'Orchestra”) predomina all'interno della cinematografia di Fellini. Dalla lunghezza anomala, 70 minuti (poco più che un corto) è certamente un film atipico nella produzione del regista sia formalmente che contenutisticamente. Per capire la sua “diversità” è utile prendere due punti di riferimento. Da una parte c'è l'autore stesso che lo definì “un filmetto” dall'altra, una poi non così tanto obiettiva Wikipedia che, nella pagina dedicata al film, decide di scostarsi dal campo enciclopedico e si lancia in un'entusiastica analisi filmica che sa tanto di difesa e riscatto del testo cinematografico. A chi credere? Dove si può situare uno sguardo lucido? Intanto, il link:








Se la virtù sta nel mezzo, probabilmente ci si trova anche il valore effettivo di “Prova d'Orchestra”. Lungi dall'essere un filmetto, non è neanche un capolavoro. Sebbene l'intento comunicativo sia chiaro, manca quella affascinante semplicità che ha da sempre contraddistinto tutti gli sforzi di Fellini. La riflessione sull'arte va ben oltre la superficialità dell'attualità politica, ma non sembra liberarsene completamente. Quello che in "8½" era un mondo compiuto in se stesso, in “Prova d'Orchestra” è profondamente scisso. Non solo nella sua ricezione (autore/spettatore) ma nel suo intimo, nella sua essenza. Il pericolo di scendere così profondamente nell'attualità, nello spazio condiviso (politica dovrà pur significare qualcosa) è troppo persistente per essere interamente superato dalla riflessione metafisica e trascendentale sull'arte e sul processo creativo.







Il riferimento vivo al sociale/politico è una ferita troppo grande per essere rimarginata dall'Amarcord felliniano. Il film risulta quindi scisso, incompiuto, separato. Le intuizioni formali di messa in scena, i divertissement narrativi, lo sguardo inconfondibile del regista sono presenti (ma anche questa volta, Fellini si nega la corporalità e non si spinge oltre alla voce fuori campo) ma rimangono sospesi in un limbo di incompiutezza che cerca continuamente di rivendicare la sua unità. “Prova d'Orchestra” parla politicamente di un'arte che non avrà mai luogo, se non nella visione di Fellini. Il fallimento della ricongiunzione finale tra il direttore e la sua orchestra, mancanza di armonia, è allo stesso tempo la disfatta del film stesso: è l'arte a rivendicare la sua negatività, la sua riottosa autonomia. L'impossibilità di imbrigliarla nei confini del mondo.




giovedì 13 febbraio 2014

Il Casanova di Federico Fellini [Fellini Checklist 18/24]

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Dopo più di 25 anni dal suo debutto nel ruolo di regista, Fellini ha chiaramente raggiunto un'età di maturità artistica. “Il Casanova di Fellini” si configura come una sovraesposizione delle caratteristiche proprie della sua cinematografia che però, esaurisce la sua carica sperimentatrice all'interno dei confini tracciati in precedenza. Sia ben chiaro, la meraviglia non viene certo a mancare: come di consueto Fellini riesce a parlare un linguaggio sempre diverso ma riconoscibile, trova nuovi escamotage e soluzioni formali che arricchiscono la sua tavolozza espressiva. Manca quella ricerca tesa a sfondare i limiti grammaticali e conoscitivi del cinema. La perfezione tecnica artigianale de “Il Casanova”, proprio come la donna meccanica, è anche il suo limite, la sua chiusura. Non si trova quella sincera ingenuità, quell'eccesso residuale che rendeva più interessanti film sicuramente meno riusciti: lo sbilanciatissimo (in ogni suo aspetto) “Giulietta degli Spiriti” potrebbe essere un ottimo esempio. In quel caso Fellini non si poneva nessun limite nell'uso del colore, utilizzato per la prima volta in un lungometraggio, e il risultato, barocco e grottesco, impressionava per la sua imperfezione. Da quel di più, per molti un passo falso, si sono potute generare le premesse formali entro le quali si muove “Il Casanova”. Se da una parte si trova l'equilibrio, dall'altra il film non possiede quella dirompenza espressiva che tipicamente catturava lo spettatore in ogni film di Fellini.







Contemporaneo a “Barry Lindon” di Kubrick, “Il Casanova” sebbene ne condivida le premesse (la messa in scena storica. Se si vuole, “il film in costume”), formalmente si colloca all'opposto. La pellicola di Fellini, infatti, è innanzitutto incentrata sulla messa in scena di spazi chiusi, al limite del claustrofobico. Inoltre, all'attenzione maniacale nella ricostruzione dei vestiti dell'epoca, sforzo che valse l'oscar ai miglior costumi nel '77, si affianca la scelta volutamente surrealista, di ricorrere a fondali dipinti e ad un grande uso di materiali plastici nella composizione della scenografia. L'anti-naturalismo non viene per nulla mascherato, anzi viene posto in evidenza: il mare in tempesta all'inizio del film è un ottimo indice del lavoro svolto per tutto il film. Questo contrasto tra personaggi e contesto, risulta nell'ennesima intuizione autoriale di Fellini che riesce a donare un'identità estetica definita ed unica ad ogni suo prodotto. L'immagine diventa quindi perfetta espressione, e sua naturale estensione, di una narrativa incastrata tra storia, sogno e ricordo.







La “maturità” di Fellini ha il pregio di essere pensata come tale da chi conosce le sue opere. “Il Casanova” è un film che poteva arrivare solo in uno stato avanzato di una carriera, non solo per il pregresso su cui è costruito, ma anche perché una pellicola del genere può essere concessa, in termini di fruizione/pubblico ma anche realizzazione/produttori, esclusivamente ad un regista affermato. L'inibizione con cui Fellini parla del sesso (argomento centrale ma quasi sempre sotterraneo nella sua cinematografia) ne “Il Casanova” è possibile solo se viene concessa carta bianca da parte del cinema stesso. Il regista, privo di ogni limite, affronta l'ultimo grande tabù della cultura occidentale con disinvoltura e senza mai cadere nel ridicolo, o ancora peggio, nel volgare. Anzi, notare come le scene di nudo vengano limitate rispetto ai suoi film precedenti. Nell'affrontare frontalmente il sesso, Fellini preferisce alludere solamente all'immagine (a tal proposito, i simboli fallici si sprecano, e l'episodio della “balena mona” rientra proprio nel discorso dei confini attraversabili solamente da un autore riconosciuto come tale) e le scene di passione vengono rappresentate volutamente in modo parodistico. Ciò che caratterizza l'erotismo de “Il Casanova” è la sua totale inscindibilità dall'impulso di morte, volontà di annullamento. Seconda grande intuizione di Fellini, questa volta a livello contenutistico, è scegliere di portare Eros e Thanatos sempre ed indissolubilmente legati.










Le avventure di Giacomo Casanova, “vitellone invecchiato”, sono una continua ricerca del totale abbandono di sé, ogni orgasmo una dichiarazione di sconfitta. La sottomissione alla donna/madre è totale, incessantemente il protagonista farnetica una riappropriazione inesistente, un ritorno nel grembo pre-natale nel momento di maggiore godimento. Il massimo conoscitore dell'arte del sesso, incarnazione del seduttore (ritorna la volontà linguistica generatrice di Fellini) è in realtà un potenziale suicida, incapace di una vera relazione. La conoscenza razionale a cui riconduce il sentimento, l'eros, è la manifestazione più evidente della sua ossessione per la morte, thanatos. La meccanicità dell'approccio culmina nel godimento dell'unione con un'automa (anticipando di anni il problema sociologico di internet e la pornografia). Il finale, evidenzia il limite del film. L' Amarcord non è più una fluida rappresentazione della vita, ma il tentativo di cristallizzare il passato per sfuggire alla morte. Casanova, nel suo ricordo, si unisce alla danza della bambola, diviene anch'esso meccanismo senz'anima, si ipostatizza per sempre devitalizzandosi. Il cinema di Fellini, per la prima volta, cerca di divenire monumento: trova la morte nella sua bellezza.




mercoledì 12 febbraio 2014

Amarcord [Fellini Checklist 17/24]

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"Amarcord" è il film che Fellini ha sempre cercato di fare. Dopo anni di esperienza, pellicole tra le più variegate, il regista sembra tornare alle sue origini. Sceglie infatti di raccontare, proprio come ne “I Vitelloni”, un'Italia provinciale ormai sparita, il suo paese natale ancor prima di essere adottato da Roma, insomma, sceglie la strada del ricordo. L'elemento autobiografico però si arricchisce dell'esperienza formale acquisita con i suoi precedenti sforzi, in particolare i docufiction “Block-Notes di un Regista” “I Clowns” e “Roma”, e il film non risulta una semplice reiterazione di temi già trattati, ma anzi, presenta un'identità ben definita.







Amarcord”, proprio perché sinceramente felliniano, presenta tutti gli elementi cari al regista. Primo tra tutti, la narrativa spezzettata in episodi sussistenti tra di loro, che condividono solo il contesto e personaggi ma non un nesso causale. Sebbene prevalentemente una commedia, il film, e in questo ricorda parecchio “Roma”, non è ascrivibile a nessun genere. La storia è piegata alla potenza espressiva della ricerca estetica: molti episodi, infatti, culminano nello sguardo meravigliato dei personaggi (ad esempio l'episodio del pavone. Ma anche quello del “Rex” indica proprio il primato narrativo della vista sull'azione). Reale e onirico, come sempre, trovano continuità nella messa in scena felliniana, che legittima qualsiasi deviazione dal credibile tramite la consapevolezza della potenza trascendentale dell'immagine. Inoltre, il tutto trova un ulteriore rafforzamento nell'impianto concettuale che permea l'essenza del film. È il ricordo a giustificare l'inverosimile, è l'oblio del tempo a rendere opache le zone di confine tra sogno e vita. “Amarcord” è la fusione, sempre più perfetta, che Fellini va cercando dal suo primo film.







Amarcord è originale e originario. L'elemento creativo risiede già nel titolo. Non è la prima volta che il linguaggio cinematografico di Fellini viene assimilato dal linguaggio comune (ad esempio il personaggio “Paparazzo” de “La Dolce Vita” diviene nome comune di una categoria) ed è così che la crasi dialettale Amarcord (dal romagnolo “ a m'arcord”, ovvero “io mi ricordo”), diviene un neologismo della lingua italiana, indicante una rievocazione in chiave nostalgica. Ecco, per capire Amarcord, e il cinema tutto di Fellini, è fondamentale fermarsi su questa qualità poietica extra-filmica delle sue pellicole. La grandezza del regista risiede nell'aver saputo creare, attraverso il mezzo cinema, un universale biografico: in pochi, forse nessuno, hanno saputo parlare così intelligentemente di sé, così genialmente, da divenire interpreti non solo del proprio tempo, ma di un popolo intero. 







Va notato come, significativamente, Fellini scelga di non scendere in prima persona nel racconto. Non solo tramite la scelta di un alter ego (Moraldo/Titta) ma proprio nella mancata riconoscibilità della sua persona come narratore. Anzi, lo stravagante narratore che compare ogni tanto tra un episodio e l'altro, viene continuamente ridicolizzato e ammutolito dal film. Il punto di riferimento felliniano, la necessità di dichiararsi guida dell'opera non è più necessaria. “Amarcord” vive al di là della soggettività, è una sorta di sogno condiviso dove ogni parte ha pari dignità. L'elemento autobiografico si annulla e si espande nel dipinto di una nazione. Fellini, però, non rinuncia al suo linguaggio, alla sua poetica. È il pubblico che si riconosce nel suo surrealismo, non c'è nulla di accomodante nei suoi film. Amarcord segna la coincidenza totale tra Fellini e lo spettatore, un racconto privato pensato per se stesso, ma sentito come proprio da tutti. Amarcord è memoria universale, ricordo collettivo. Indimenticabile.






martedì 11 febbraio 2014

Roma [Fellini Checklist 16/24]

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“Roma” sancisce l'apice della parabola documentaristica di Fellini che ha contraddistinto tutti i suoi film post-Satyricon. Il regista ripercorre la città, set di tanti suoi film, non solo spazialmente ma anche temporalmente. A ribadire la totale identificazione con le sue opere, c'è la coincidenza tra il luogo delle sue pellicole e il tempo della sua vita. “Roma”, dalla struttura episodica tipica di Fellini, presenta in aggiunta, una Storia divisa in due: da una parte la Roma degli anni '30 che accoglie un diciottenne Fellini per la prima volta, dall'altra la Roma degli anni '70, contemporanea, attuale e caotica. La volontà documentaristica si fonde definitivamente con la finzione autobiografica e i due piani sono ormai inscindibili.







Roma” mostra come la città, nonostante gli stravolgimenti temporali, riesca a mantenere una forte identità. Non tanto nel suo essere monumento, ma nell'essere patria di un popolo unico al mondo. La Roma di Fellini, è veramente quel circo che ha cercato di raccontare in ogni suo film. Nonostante la distruttività della guerra, vera e proprio cicatrice del 1900, oltre gli sconvolgimenti sociali degli anni '70, i romani hanno la capacità di andare sempre oltre, di rialzare la testa. Una forza che trascende il singolo ed è propria della città/contesto. Il romano è il clown che ossessiona l'iconografia felliniana, così triste ma così divertente. La volgarità, l'eccessività e l'arroganza sono più di semplici maschere: sono antidoti contro la vita. Nella sua semplicità, nel suo ridicolizzare tutto, nel suo sapersi dimenticare della morte che alberga per le strade, qui risiede la sua forza. Nella Roma di Fellini, surrealista ma veritiera, i bordelli si sovrappongono alle sfilate di moda ecclesiastiche: nella città eterna, tutto è possibile.







Roma” è una grandissima dichiarazione d'amore, un affresco così vivo e sincero che solo chi ha vissuto veramente questa città poteva dipingere. L'eterogenea vastità di Roma si sposa perfettamente con il multilinguismo di Fellini: l'unitario pastiche stilistico e di generi è più solido che mai in questa sua ultima incarnazione. Incredibile l'incedere dello sguardo del regista che lentamente cerca di entrare dentro ogni singolo edificio inquadrato come se tentasse di consegnare allo spettatore il segreto dell'eternità di Roma. Lo sguardo di Fellini, però, così intimista e indagatorio, risulta sempre estraneo. Lo scrutare degli attori in macchina ogni volta che il regista attraversa la città, non rompe ingenuamente una delle regole fondamentali del linguaggio cinematografico. Anzi, è proprio l'intuizione migliore che Fellini ha nei confronti dei romani: tra semplicità e diffidenza, in uno sguardo viene condensata l'essenza dei romani. In fondo, la reale inavvicinabilità di Roma viene confermata dalla donna/simbolo per eccellenza, Anna Magnani, che si rifiuta di dar confidenza a Fellini, seppur suo amico, e gli chiude la porta in faccia. Alla fine, Roma si lascia percorre da tutti, non nega la sua vista a nessuno: il suo fascino rimarrà eterno. In pochi, però, avranno il diritto di viverla.



lunedì 10 febbraio 2014

I Clowns [Fellini Checklist 15/24]

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Secondo docufiction pensato per la televisione, “I Clowns” presenta la stessa impostazione concettuale de “Block-Notes di un Regista”. Questa volta, però, Fellini decide di usare il cinema (o la TV) non per raccontare i suoi film, ma per esplorare da vicino la figura simbolo del mondo circense: il clown. La ricerca assume da subito un carattere intimista. Non è segreta la fascinazione che il regista nutriva per i clown ed il circo, e come questi elementi ritornassero periodicamente, in maniera più o meno esplicita, in ogni suo lavoro.







“I Clowns” inizia con la storia di un bambino incapace di ridere di fronte al circo, poiché ai suoi occhi risulta inseparabile dalla realtà. Ed è proprio con lo straniamento dal pubblico che il bambino cresce e diviene regista. Fellini, in fondo, in ogni suo film non ha fatto altro che ribadire lo stesso concetto: ai suoi occhi vita e circo, così come realtà e rappresentazione, sono indistinguibili. Nel trovare questa paradossale coincidenza c'è tutto il suo genio che lo eleva da semplice spettatore. Il surrealismo della messa in scena felliniana, è lo stesso regista a dircelo in questo film, non è altro che la (mancata) meraviglia di un bambino mai totalmente abbandonato.







A rimarcare la totale coincidenza tra realtà e finzione, c'è l'incapacità felliniana di girare un documentario in senso stretto. Di cosa parla realmente “I Clowns”? È una ricerca su un tema, è un'autobiografia mascherata, o è un film su un film? È ognuna di queste cose, proprio come tutti i suoi lavori precedenti. È interessante notare però, come dopo l'esplorazione interna, vera e proprio auto-analisi psicologica, di 8½ e l'appropriazione della dimensione storico-sociale di “Fellini Satyricon”, Fellini senta il bisogno di far entrare la sua figura, il suo essere regista, nel film stesso. Una presenza che va ben oltre la semplice inquadratura e voci fuori campo, ma si esplica nella necessità di essere percepito come motore anteriore alla vista, principio di sguardo e movimento. Ma è Fellini stesso a immergersi totalmente nella sua opera (“I Clowns” è innanzitutto la storia di una sua fascinazione) e a dichiararsi incapace di distinguersi da essa. Così come la troupe “sfonda” in continuazione i limiti dell'inquadratura, sia fisicamente che narrativamente, è il film stesso a rivendicare una sua autonomia. A luci spente, lo spettacolo ricomincia e continua all'infinito, non c'è neanche più un pubblico. Cinema, oltre la vita.




domenica 9 febbraio 2014

Block-Notes di un Regista [Fellini Checklist 14/24]

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“Block-Notes di un Regista” è un documentario girato da Fellini nel 1969 e commissionato dalla NBC. Pensato quindi per il pubblico della televisione americana, il “finto” documentario è una sorta di “semihumourous introduction” (come lo definì lo stesso regista) al cinema dell'autore. Progetti passati, presenti e futuri vengono passati in rassegna da Fellini e la sua troupe mentre si aggirano sul set prediletto del cineasta riminese: Roma, la sua seconda città natale. La pretesa documentarista crolla immediatamente e lo sguardo sul reale della mdp si fonde con la visione di Fellini. Gli individui incontrati diventano i suoi attori, tra le persone ed i personaggi non c'è più nessuna separazione. Il cinema prende la vita ed annulla il tempo. La Roma di Fellini, è la città eterna.







Il surrealismo dell'incedere onirico, dove le prostitute divengono matrone e i camionisti dei gladiatori, è l'atto finale a cui da sempre punta il cinema di Fellini. “We are making a trip in time rather than in space”, suggerisce il regista durante un visionario viaggio in metro. Con la massima naturalezza, non c'è nessun inganno, Fellini regala il suo personalissimo sguardo, stavolta senza la mediazione del film tra lui e il pubblico. È il cinema a dichiararsi incapace di essere onesto, ma non c'è nessuna malizia dietro questa inadeguatezza: il filtro/cinema non è una prospettiva artificiale, è l'unico occhio possibile con il quale Fellini si affaccia alla realtà.







Nella sua spensieratezza, il documentario risulta molto utile per avere qualche informazione sul progetto mai concluso di Fellini, ovvero “Il Viaggio di G. Mastorna”, che fu definito da Vincenzo Mollica, "il film non realizzato più famoso della storia del cinema". Inoltre, essendo commissionato da un'emittente anglofona, il film è parlato in inglese dagli stessi protagonisti senza essere stato ridoppiato (è presente una versione in italiano ma è tagliata rispetto all'originale). Il risultato finale, seppure i dialoghi strappino più di un sorriso per l'ingenuità dell'inglese parlato, è di una sincerità disarmante. Fellini, per molti campione del barocco e dell'artificioso, non ha paura di mettersi a nudo: dentro di lui, nient'altro che il cinema.




sabato 8 febbraio 2014

Fellini Satyricon [Fellini Checklist 13/24]

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“Fellini Satyricon” è un film liberamente ispirato all'omonima opera di Petronio. Romanzo latino mai pervenuto nella sua completezza, formato su un pastiche di diversi generi e stili tendenti al parodistico e (appunto) al satirico, appassionò il regista per i due protagonisti che definì:
«Encolpio e Ascilto sono due studenti metà vitelloni, metà capelloni che passano da un'avventura all'altra, anche la più sciagurata, con l'innocente naturalezza e la splendida vitalità di due giovani animali.»
“Fellini Satyricon” viene dunque concepito dal regista come una sorta di “doppio” storicamente traslato de “La Dolce Vita”, si pone in linea di continuità contenutistica con esso, mettendo in scena attraverso una narrativa frammentata e surrealista la decadenza di una società. La poetica Felliniana nel contempo è vissuta di sperimentazioni (più o meno riuscite) che nei nove anni che separano l'uscita dei due film, hanno portato a una profonda estremizzazione del cinema del regista. Il risultato, quindi, non solo va ben oltre il già ostico surrealismo de “La Dolce Vita”, ma supera anche l'estetica barocca e grottesca de “Giulietta degli Spiriti”. “Fellini Satyricon” è l'ennesimo passo in avanti del regista che sembra non adagiarsi mai sulle conquiste, ma anzi non ha timore di aggiungere sempre nuovi strati di complessità alle sue produzioni.






Impenetrabile più che mai, Fellini costruisce la pellicola su un doppio rimando: la sua esperienza da una parte, il testo letterario dall'altro. Sebbene solo la cena di Trimalchione sia l'unico episodio rimasto invariato rispetto a Petronio, è proprio nel suo riferimento distorto che lo spettatore trova l'unico accesso possibile al film. L'intenzionalità denigratrice è infatti sepolta dall'estetica felliniana che rivendica un primato contenutistico. È l'immagine/cinema a parlare autonoma, questa la vera grandezza di Fellini: ogni singola inquadratura si eleva così tanto dalla ristrettezza della semplice forma da essere sussistente di per sé. La frammentarietà narrativa trova la giustificazione proprio in questa dirompenza formale. Il percorso che va da “Le Luci del Varietà” a “Fellini Satyricon” è quindi un viaggio verso la decostruzione del linguaggio e la sua successiva ricomposizione in immagine.







Il senso dunque non può più ritrovarsi, come in Petronio, nella satira sociale, ma nella sua messa in scena, nell'unicità compositiva propria del regista. Al di là della storia, quindi, non rimane che il gesto. L'unico elemento verbale che si imprime nella memoria dello spettatore è l'incessante e volgare risata che permea lo spettro sonoro di tutto il film. Il dialogo si disperde in una babelica confusione di lingue non comunicanti, ogni cosa si risolve nel volto trasfigurato di chi, senza pudore, ride dell'altro. Il Satyricon di Fellini, è un inno alla dissacrazione, al crollo, alla distruzione di ogni punto di riferimento. Ma è anche un invito al recupero di una tradizione in funzione di nuove possibilità. È come se il regista si ponesse alla fine della Storia e da la intuisse che l'esistenza umana attraversa ciclicamente sempre le stesse tappe, e tra Petronio e la contemporaneità c'è una separazione temporale: il declino è concettuale ed assoluto. L'innovazione quindi può arrivare solo da un cambio di sguardo, da una nuova visione del sempre uguale.
È nel finale che risiede l'ennesima dichiarazione di totale abbandono del regista verso (ed attraverso) il suo pubblico e la sua creazione: mitigato nel tempo e ricondotto al mito del reale, il testamento di Eumolpo, vero e proprio invito al cannibalismo, non è altro che lo splendido balletto finale di 8%12, dove opera e autore trovavano la loro verità in una mediazione totale. Encolpio rifiuta l'assunzione, e diviene storia: tutto il resto, è leggenda.







Tra attualità e mito, Fellini dimostra come il cinema possa essere interprete non solo del suo tempo, ma della vita stessa. Ciò che traduce, però, non è avvicinabile secondo i canoni di un'esperienza obiettiva e razionale. Realtà, sogno e tradizione si fondono ancora una volta nell'unicità di una visione senza tempo: il “Satyricon” di Fellini è la disgregazione della cultura occidentale al suo apice, un dissacrante funerale senza defunto.