lunedì 18 aprile 2016

Il canto di Swann: dalla parte del fallimento.


La ricerca è intrisa nel fallimento. L'ho sempre vista come la condensazione in parole di un mondo morente, una cultura destinata al disfacimento. L'ultimo secolo del millennio getta l'umanità in un'agonia ormai palese, i sintomi sono riconoscibili e studiabili, manifestando una consapevolezza necessaria per affrontare il primo passo verso il declino. E Marcel Proust è il titano del suo tempo, un tempo ormai perduto. C'è qualcosa di più ansiogeno di leggere oggi l'abisso esistenziale che permeava la società parigina in tutte le sue violenze, in tutte le sue gerarchie, nel predominio di un pensiero borghese ormai auto-divoratosi allo sfinimento? Proust è l'araldo di un pensiero accademico ed enciclopedico che si fonde paradossalmente con la possibilità dell'irrazionale. Qualcosa di ancora non concreto ma che si affaccia nella coscienza di chi abita un presente così turbolento: ed ecco la non linearità del tempo, l'irripetibilità dell'esperienza, il valore della memoria, la coscienza (non determinata) di un qualcosa interno alla nostra persona che sfugge al nostro controllo. La forma più classica della narrazione, il romanzo, che accoglie l'imprevedibilità della psiche umana, generando un infante deforme: una massa spropositata in un corpo che non accetta le regole della tradizione che vorrebbe seguire. Un tentativo sconclusionato, fallimentare, ma proprio per questo, unico e irripetibile.

Ma la Recherche è anche e soprattutto il fallimento di un uomo incapace di accettare le sue pulsioni. Proust sacrifica la sua persona all'opera, crea un mondo (anzi, un'infinità di mondi) al di fuori del reale per poter vivere ciò che non avrà mai il coraggio di affrontare. Marcel Proust muore dopo 13 anni di scrittura incessante. Da solo, in una stanza ricoperta di sughero per non permettere al più piccolo dei rumori di disturbarlo, completamente isolato dal resto della società. Lasciando così un'opera incompiuta, segna il suo ultimo fallimento: l'aver permesso alla vita di avere la meglio sull'arte.

Entro in gioco io: il mio di fallimento, è quello di non essere riuscito a finire di leggere la Recherche. Sono arrivato abbastanza avanti, verso la fine di Sodoma e Gomorra, ma poi niente, il mio interesse si è spento e non credo che mai finirò di leggere l'opera di Proust. Perché? Non sono un grande lettore e per me leggere è sempre una sfida immensa. Orgoglioso come sono, sento la necessità di pormi dei grandi obiettivi, delle vere e proprie battaglie contro me stesso. Ha funzionato con V. di Pynchon, con la Recherche ho fallito miseramente. Mi dispiace di aver letto distrattamente delle pagine, di aver perso più volte il filo del discorso, di essermi dimenticato dei personaggi per strada. Ma che ci posso fare? Non ce l'ho fatta.

C'è un elemento però che con il tempo, sono riuscito ad imparare su di me. Riesco a ricavare sempre qualcosa da ogni esperienza, anche se in modo imprevedibile e non sistematico. Solitamente sono delle piccole folgorazioni, le covo dentro di me senza neanche accorgermene e un giorno semplicemente... esplodono. Ho sempre avuto paura di non essere in grado di apprezzare le cose, di non avere la sensibilità necessaria per emozionarmi di fronte al bello (ma costa così tanto dire a un ragazzino che non è un problema adorare lo scarto?) e per questo ho spesso cercato di impormi la fruizione, di forzare la metabolizzazione. Per fortuna le cose non funzionano così.

L'assimilazione non è un processo controllabile, al massimo la si può stimolare. C'è un passaggio de Verità e Metodo di Gadamer, che nel suo ossessionarmi non fa altro che confermare la mia natura. Gadamer condanna la cultura museale, quel tipo di sapere estetico legato all'esperienza soggettiva che rimanda necessariamente qualsiasi esperienza artistica al proprio vissuto e all'assimilazione di esso. Spesso mi sento un museo: una bella vetrina di artefatti (esperienze) completamente sradicati dal loro significato che trovano la loro unica ragione di vicinanza nell'essere stati tematicamente accostati dal mio incontro con essi. Mancherò di rispetto verso l'arte, nel mio egoismo, nell'atto vampirico di riconfigurare me e il mondo partendo dall'esperienza di altri? Il problema non è la fruizione, ma limitare tutto quanto al proprio orizzonte rendendo così questo ipotetico dialogo accessibile solo dal mio punto di vista, dal mio esperire. Sarò autistico? Non lo so, sono qui a raccontarvelo , magari una fusione (di orizzonti) non è così utopica...
In ogni caso, Gadamer ha creato una paradossale crepa nelle mie intenzioni è un po' sorrido a pensare che senza Hans, il mio museo non avrebbe mai aperto al pubblico.

Quindi della Recherche mi rimangono impressi momenti ben determinati, completamente scollati tra di loro. Sarebbe troppo semplice citare l'episodio della Madeleine... Della mia battaglia contro Proust, oggi, non posso non pensare all'incredibile parabola amorosa di Charles Swann e del suo oggetto del desiderio, Odette. Incredibile perché non penso che nessun altro autore si sia spinto così tanto nel dettaglio descrivendo le dinamiche perverse e masochiste del desiderio, soprattutto in un periodo dove la loro esistenza poteva essere soltanto intuita e non imbrigliata. Così come Kant, mai uscito da Konigsberg, parlava della meraviglia del pellegrino di fronte alle porte di Roma, così Marcel Proust, assassino del suo desiderio, racchiude una vita di delusioni, di amore e gelosia in un detour quasi accidentale del suo monumentale atlante. C'è un soggetto altro a parlare per Marcel, non potrebbe essere altrimenti, c'è bisogno del distacco per poter penetrare così a fondo.

Il punto è, che io a fondo non posso andare. Non sono qui per fare riassunti, non ne sarei in grado, in primo luogo per la distanza temporale che mi separa dalla lettura di queste pagine: sono ormai un ricordo confuso, rimuginato quanto rimasticato, e sono ormai indissolubilmente legate al mio io. Ma penso alla fine, a quel sogno distorto che segna il termine della disillusione amorosa diventata ormai un calvario. È la dimensione onirica a rimettere a posto le cose: tutta la sofferenza, la gelosia, l'incomprensibile smania di controllo che si impadronisce della nostra ragione proprio quando ci rendiamo conto di non possedere (o non aver mai posseduto?) più nulla, tutto questo svanisce in un brutto sogno. Tutto questo casino, per una donna che non ci era mai interessata.

Aspetto questo sogno, lo scarto definitivo. Il distacco ultimo, dettato dal tempo e da tutto quello che, insieme ad esso, perdiamo inevitabilmente. Il ricordo è un'illusione sbiadita di un passato che continuiamo a modificare, perché è già troppo lontano, perché non è più vita, ma solo memoria.

Continui ad apparirmi in sogno. Quest'ultima volta il nostro addio aveva il carattere di un segreto, custodito con gelosia, ma che per un attimo mi illudeva dovesse ancora giungere. La tristezza di dover ammettere, nel privato, che il mondo era crollato, che avevamo già aperto le porte alla fine e che nonostante le mie richieste, tornare indietro era impossibile, amplificava tremendamente il dolore. Un addio inflitto una seconda volta. Questo è l'ultimo, il ricordo più vivido. Una sofferenza gratuita quanto inutile, a cui continuo ad ancorarmi, per non perderti completamente.

Ma il tempo appiattisce tutto.
Prima o poi verrà quel sogno, e sarò costretto a svegliarmi.