La ricerca è intrisa nel fallimento.
L'ho sempre vista come la condensazione in parole di un mondo
morente, una cultura destinata al disfacimento. L'ultimo secolo del
millennio getta l'umanità in un'agonia ormai palese, i sintomi sono
riconoscibili e studiabili, manifestando una consapevolezza
necessaria per affrontare il primo passo verso il declino. E Marcel
Proust è il titano del suo tempo, un tempo ormai perduto. C'è
qualcosa di più ansiogeno di leggere oggi l'abisso esistenziale che
permeava la società parigina in tutte le sue violenze, in tutte le
sue gerarchie, nel predominio di un pensiero borghese ormai
auto-divoratosi allo sfinimento? Proust è l'araldo di un pensiero
accademico ed enciclopedico che si fonde paradossalmente con la possibilità dell'irrazionale. Qualcosa di
ancora non concreto ma che si affaccia nella coscienza di chi abita un presente così turbolento: ed ecco la non linearità
del tempo, l'irripetibilità dell'esperienza, il valore della
memoria, la coscienza (non determinata) di un qualcosa interno alla
nostra persona che sfugge al nostro controllo. La forma più classica
della narrazione, il romanzo, che accoglie l'imprevedibilità della
psiche umana, generando un infante deforme: una massa spropositata in
un corpo che non accetta le regole della tradizione che vorrebbe
seguire. Un tentativo sconclusionato, fallimentare, ma proprio per
questo, unico e irripetibile.
Ma la Recherche è anche e soprattutto
il fallimento di un uomo incapace di accettare le sue pulsioni.
Proust sacrifica la sua persona all'opera, crea un mondo (anzi,
un'infinità di mondi) al di fuori del reale per poter vivere ciò
che non avrà mai il coraggio di affrontare. Marcel Proust muore dopo
13 anni di scrittura incessante. Da solo, in una stanza ricoperta di
sughero per non permettere al più piccolo dei rumori di disturbarlo,
completamente isolato dal resto della società. Lasciando così
un'opera incompiuta, segna il suo ultimo fallimento: l'aver permesso
alla vita di avere la meglio sull'arte.
Entro in gioco io: il mio di
fallimento, è quello di non essere riuscito a finire di leggere la
Recherche. Sono arrivato abbastanza avanti, verso la fine di Sodoma e
Gomorra, ma poi niente, il mio interesse si è spento e non credo che
mai finirò di leggere l'opera di Proust. Perché? Non sono un grande
lettore e per me leggere è sempre una sfida immensa. Orgoglioso come
sono, sento la necessità di pormi dei grandi obiettivi, delle vere e
proprie battaglie contro me stesso. Ha funzionato con V. di Pynchon,
con la Recherche ho fallito miseramente. Mi dispiace di aver letto
distrattamente delle pagine, di aver perso più volte il filo del
discorso, di essermi dimenticato dei personaggi per strada. Ma che ci
posso fare? Non ce l'ho fatta.
C'è un elemento però che con il tempo,
sono riuscito ad imparare su di me. Riesco a ricavare sempre qualcosa
da ogni esperienza, anche se in modo imprevedibile e non sistematico.
Solitamente sono delle piccole folgorazioni, le covo dentro di me
senza neanche accorgermene e un giorno semplicemente... esplodono. Ho
sempre avuto paura di non essere in grado di apprezzare le cose, di
non avere la sensibilità necessaria per emozionarmi di fronte al
bello (ma costa così tanto dire a un ragazzino che non è un
problema adorare lo scarto?) e per questo ho spesso cercato di
impormi la fruizione, di forzare la metabolizzazione. Per fortuna le
cose non funzionano così.
L'assimilazione non è un processo
controllabile, al massimo la si può stimolare. C'è un passaggio de
Verità e Metodo di Gadamer, che nel suo ossessionarmi non fa altro
che confermare la mia natura. Gadamer condanna la cultura museale,
quel tipo di sapere estetico legato all'esperienza soggettiva che
rimanda necessariamente qualsiasi esperienza artistica al proprio
vissuto e all'assimilazione di esso. Spesso mi sento un museo: una
bella vetrina di artefatti (esperienze) completamente sradicati dal
loro significato che trovano la loro unica ragione di vicinanza
nell'essere stati tematicamente accostati dal mio incontro con essi.
Mancherò di rispetto verso l'arte, nel mio egoismo, nell'atto
vampirico di riconfigurare me e il mondo partendo dall'esperienza di
altri? Il problema non è la fruizione, ma limitare tutto quanto al
proprio orizzonte rendendo così questo ipotetico dialogo accessibile
solo dal mio punto di vista, dal mio esperire. Sarò autistico? Non
lo so, sono qui a raccontarvelo , magari una fusione (di orizzonti)
non è così utopica...
In ogni caso, Gadamer ha creato una
paradossale crepa nelle mie intenzioni è un po' sorrido a pensare
che senza Hans, il mio museo non avrebbe mai aperto al pubblico.
Quindi della Recherche mi rimangono
impressi momenti ben determinati, completamente scollati tra di loro.
Sarebbe troppo semplice citare l'episodio della Madeleine... Della
mia battaglia contro Proust, oggi, non posso non pensare
all'incredibile parabola amorosa di Charles Swann e del suo oggetto
del desiderio, Odette. Incredibile perché non penso che nessun altro
autore si sia spinto così tanto nel dettaglio descrivendo le
dinamiche perverse e masochiste del desiderio, soprattutto in un
periodo dove la loro esistenza poteva essere soltanto intuita e non
imbrigliata. Così come Kant, mai uscito da Konigsberg, parlava della
meraviglia del pellegrino di fronte alle porte di Roma, così Marcel
Proust, assassino del suo desiderio, racchiude una vita di delusioni,
di amore e gelosia in un detour quasi accidentale del suo monumentale
atlante. C'è un soggetto altro a parlare per Marcel, non potrebbe
essere altrimenti, c'è bisogno del distacco per poter penetrare così
a fondo.
Il punto è, che io a fondo non posso
andare. Non sono qui per fare riassunti, non ne sarei in grado, in
primo luogo per la distanza temporale che mi separa dalla lettura di
queste pagine: sono ormai un ricordo confuso, rimuginato quanto
rimasticato, e sono ormai indissolubilmente legate al mio io. Ma
penso alla fine, a quel sogno distorto che segna il termine della
disillusione amorosa diventata ormai un calvario. È la dimensione
onirica a rimettere a posto le cose: tutta la sofferenza, la gelosia,
l'incomprensibile smania di controllo che si impadronisce della
nostra ragione proprio quando ci rendiamo conto di non possedere (o
non aver mai posseduto?) più nulla, tutto questo svanisce in un
brutto sogno. Tutto questo casino, per una donna che non ci era mai
interessata.
Aspetto questo sogno, lo scarto
definitivo. Il distacco ultimo, dettato dal tempo e da tutto quello
che, insieme ad esso, perdiamo inevitabilmente. Il ricordo è
un'illusione sbiadita di un passato che continuiamo a modificare,
perché è già troppo lontano, perché non è più vita, ma solo
memoria.
Continui ad apparirmi in sogno.
Quest'ultima volta il nostro addio aveva il carattere di un segreto,
custodito con gelosia, ma che per un attimo mi illudeva dovesse
ancora giungere. La tristezza di dover ammettere, nel privato, che il
mondo era crollato, che avevamo già aperto le porte alla fine e che
nonostante le mie richieste, tornare indietro era impossibile,
amplificava tremendamente il dolore. Un addio inflitto una seconda
volta. Questo è l'ultimo, il ricordo più vivido. Una sofferenza
gratuita quanto inutile, a cui continuo ad ancorarmi, per non
perderti completamente.
Ma il tempo appiattisce tutto.
Prima o poi verrà quel sogno, e sarò
costretto a svegliarmi.