Dopo due commedie, anzi una e mezza (Le
Luci del Varietà e Lo Sceicco Bianco), Fellini, con I Vitelloni,
cambia decisamente registro virando su un cinema più drammatico,
attuale. Facendo tesoro della filmografia neorealista, il regista
filtra attraverso il suo inconfondibile tocco la descrizione di
un'Italia disperata e provinciale. Un film che è un vero balzo in
avanti, uno scarto netto rispetto alle sue produzioni precedenti. Ne I Vitelloni, per la prima volta, Fellini riesce a fondere racconto,
autobiografia, suggestioni ed impressioni in un unicum che trascende
i generi che si presenta come opera viva e sincera: è palese, ormai,
ciò che si potrebbe definire “tocco”, quel qualcosa di così
evidente ma indeterminato che separa un regista da un autore.
L'incredibile capacità di imprimersi nell'opera, di rendersi
riconoscibili attraverso essa.
"Sono un artigiano
che non ha niente da dire, ma sa come dirlo"
Nella provinciale Rimini,
si aggirano cinque ragazzi. Troppo giovani per pensare al futuro, ma
troppo vecchi per costruirsene uno, passano le loro giornate nella
promessa di incominciare a vivere. Il loro è un movimento rotatorio,
circolare: si trascinano senza una meta per strada, non hanno orari,
andare avanti significa tornare indietro, a casa. Ogni giorno vale
l'altro. Fellini racconta questa storia in modo perfetto, articolando
la sceneggiatura in una struttura episodica in cui a turno i cinque
vitelloni si scambiano il ruolo di protagonista. L'esito è sempre lo
stesso: un sostanziale fallimento dove le possibilità di salvezza da
un determinato ambiente vengono negate brutalmente. La grandissima
intuizione del regista risiede nell'affermare implicitamente la
natura della disgrazia: sono i giovani a condannarsi da soli, a non
voler uscire da questo circolo vizioso che sembra averli intrappolati
per sempre. Il finale, speranzoso ma straziante allo stesso tempo,
racchiude tutta la potenza dell'espressività narrativa di Fellini:
l'unico ragazzo che cede all'impulso di rinnovamento, doppiato solo
in quella scena dallo stesso regista, abbandona tutto e tutti senza
riuscire a capire veramente il perché. Gli basta solo pensare
un'ultima volta ai suoi amici, per sempre uguali, per sempre
addormentati.
Questa continua tensione
tra serio e faceto, dramma e commedia, buoni propositi e realtà, è
il motore pulsante del film, e in quanto tale non si risolve mai. Tra
tutti, proprio come nello Sceicco Bianco, si distingue il personaggio
di Alberto Sordi che incarna questa contraddizione di fondo. Bambino
troppo cresciuto, disoccupato per sempre, moralista ma volgare,
attaccato alla famiglia ma sostanzialmente anaffettivo. Fellini
intuisce le potenzialità espressive dell'attore e spinge fino al
limite la macchietta del romanissimo Sordi, fino a farlo trasformare
in una donna. Ecco, la scena del ballo di carnevale è il cuore
pulsante del film, molto più della (certo divertente) pernacchia ai
lavoratori della malta. Innanzitutto, esplicita in maniera evidente
la tematica dell'incredibile potere trasfigurante dell'arte agli
occhi del regista. A tal proposito, numerosi sono gli episodi interni
alla pellicola che rimandano a questo nucleo tematico: è come se le
uniche variazioni possibili di una vita intrappolata nel quotidiano
siano le rituali rappresentazioni delle festività, il mettersi in
gioco carnevalesco che ha senso solo nel suo dato momento. Ma anche
il cinema, il teatro, la sfilata sono gli unici momenti in cui il
singolo riesce ad abbandonarsi alla propria fantasia, a vivere
l'illusione del reale.
Ritornando al ballo di
carnevale, è il perfetto esempio di messa in scena felliniana, se
così si può dire. Incredibilmente già al di là del neorealismo,
si sceglie di raccontare il vero non attraverso un occhio sincero,
oggettivo, ma tramite lo scardinamento del normale. Il surrealismo
diventa l'unica strada possibile per affrontare la realtà nel modo
più concreto: è solo nel suo superamento, nella sua parodizzazione,
che la vita può osservarsi fedelmente.
Senza entrare
nell'analisi approfondita della scena (sezionarla significherebbe
ucciderla), suggerisco di focalizzarsi sulla fluidità della regia di
Fellini e su come essi si sposino con le musiche di Nino Rota,
connubio artistico che segnerà gran parte della filmografia
dell'autore. Inoltre, non da sottovalutare, l'irrompere violento
dell'iconografia clownesca, simbolo che diventerà riproposizione
costante nell'immaginario del regista.
Una volta c'era un'Italia
stanca in partenza. Incapace di alzarsi, che non voleva vivere. Era
un paese nato morto, senza voglia di futuro. Chi ci viveva, sapeva
che nulla sarebbe mai cambiato, che la sua casa era già la sua
tomba.
C'era una volta questa
Italia: ora non esiste più.
Letto tutto d'un fiato... analisi e critica ancora una volta inoppugnabili ed illuminanti! Mi piace molto il nuovo taglio, sintetico ed efficace. Condivido la scelta della scena del ballo come elemento centrale, essenza dell'opera felliniana.
RispondiEliminaMichele, non c'è dubbio: i tuoi studi cinematografici ed il tuo lavoro di critico procedono davvero nel miglior modo possibile!
Non sai che piacere che mi fanno queste parole, sei sempre troppo buono!
EliminaTanti saluti (anche da parte di Ornella), a presto!