Cimentandomi nella riorganizzazione di
pensieri di quella che ormai è la mia materia di studio principale,
ritorno su questo blog proponendo qualche riflessione sparsa.
Partiamo dall'assunto:
Il cinema è linguaggio
In quanto tale, per poter essere
comunicato ha bisogno di una grammatica, di regole e convenzioni che
lo rendano condivisibile. Il cinema, ovviamente, non si muove sul
terreno della parola, ma su quello dell'immagine. Il fatto che
l'apparato grammaticale sia “nascosto” dietro l'apparente
indipendenza dell'immagine, non può essere una scusa per non
indagare le sue regole. Il cinema ha riflettuto sempre su se stesso,
sulle sue possibilità espressive e sui suoi limiti necessari. Nulla
nasce per caso, della tecnica umana niente è spontaneo (nel senso di
naturale). Un concetto che oggi forse sfugge, incantati (come agli
albori del cinema) dalla spettacolarità superficiale dell'immagine.
Il primo aspetto tecnico che vorrei
indagare è quello del montaggio. La definizione che ne da André
Bazin nel libro “Che cos'è il cinema” cap. “L'evoluzione
del linguaggio cinematografico” è molto utile:
“Per << immagine >>
intendo, molto genericamente, tutto ciò che alla cosa rappresentata
può aggiungere la sua rappresentazione
sullo schermo. Si tratta di un rapporto complesso che può però
essere sinteticamente ricondotto a due gruppi di fatti: la plasticità
dell'immagine e le risorse del montaggio (il quale non è
altro che l'organizzazione delle immagini nel tempo).”
André Bazin |
Innanzitutto va notato che, la semplice
organizzazione delle immagini nel tempo, non è poi così semplice.
Il montaggio è un potente mezzo espressivo perché genera il
senso. La relazione che si
instaura tra le immagini è un qualcosa di nuovo, che esula dai
singoli elementi. Uno di quei casi, insomma, dove il tutto va ben
oltre la somma delle parti che lo compongono.
I
primi ad indagare con metodo le potenzialità espressive del
montaggio furono i cineasti sovietici. Famosissimo l'esperimento
portato avanti dal regista Lev
Vladimirovič Kulešov nel
1918. In cosa consisteva?
Lev Vladimirovič Kulešov |
Kulešov
prese un primo piano di un attore da un vecchio film dell'epoca
zarista. Ivan Il'ič
Mozžuchin.
Il piano mostrava l'attore in una posa facciale inespressiva. Il
regista replicò tre volte (utilizzando gli stessi fotogrammi) il
piano dell'attore, ma tra le ripetizioni inserì altri tre piani,
tematicamente scollegati tra di loro. Alla faccia sempre uguale di
Mozžuchin
si alternavano dunque un piatto di minestra, una bambina morta dentro
ad una cassa, ed una donna semi-nuda.
La
reazione del pubblico alla proiezione del cortometraggio fu
imprevedibile (per tutti, tranne che per Kulešov
probabilmente).
Essi infatti rimasero sbalorditi dalle capacità espressive
dell'attore. Nella stessa faccia inespressiva gli spettatori avevano
ravvisato emozioni diverse, percependo chiaramente l'appetito
dell'attore nel primo caso, un senso di tristezza nel secondo, e
infine desiderio nel terzo. Tutti quanti, attribuendo un valore
diverso ad una stessa inquadratura ripetuta in momenti diversi, erano
stati ingannati dal montaggio operato dal regista. Questo fenomeno prese il nome di "effetto Kulešov". Cosa significa?
Significa
che il montaggio suggerisce, lo spettatore integra. La successione
delle immagini trasfigura profondamente la percezione che se ne ha di
esse, l'intelletto di chi guarda tende alla ricostruzione, a colmare
l'informazione non presente tra le due immagini. È come se lo stacco
di montaggio, impercepibile fotogramma mancante, fosse un abisso
senza fondo al quale lo spettatore pone rimedio tramite un nesso, un
vero e proprio ponte, logico e personale allo stesso tempo,
costruendo così la via d'accesso a ciò che viene guardato. Si crea così
un discorso, un nuovo
senso, inscindibile non solo dal susseguirsi delle immagini, ma
dall'esperienza dello spettatore.
Gli
allievi di Kulešov,
primo tra tutti Sergej
Michajlovič Ėjzenštejn,
porteranno avanti gli studi del loro maestro. Le incredibili
potenzialità espressive del montaggio li porteranno ad affermare che
la “specificità filmica”, ovvero ciò che differenzia il testo
filmico da qualsiasi altro tipo di narrazione, risiede proprio nel
montaggio stesso.
Sergej Michajlovič Ėjzenštejn |
Chiudo
questa prima breve riflessione con una domanda, che sembra poi essere
uno dei centri nodali (mai risolti) della, molto spesso, confusa
teoria di Ėjzenštejn:
chi genera veramente il senso? Volutamente prima ho parlato di nesso
“logico e personale allo stesso tempo” in riferimento allo
spettatore. Non è chiaro se il “di più” sia creato da chi
guarda (e quindi strettamente personale) o sia logicamente implicito
nel succedersi di due immagini. Il regista, o chi per lui, può
veicolare il senso interno al montaggio ed anticipare le associazioni
di chi guarda? Esiste la libertà dell'interpretazione o siamo
schiavi della forma?
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