Dopo
l'incessante girare su se stessi de i Vitelloni, primo grande
capolavoro del regista, il cinema di Fellini, con La Strada, si
appropria di una sua direzionalità. Un percorso senza una meta, ma
sempre in avanti, la vita dei due artisti di strada (Anthony Quinn e
Giulietta Masina) è un continuo abbandono, di sé e del mondo, che
non permette nessun contatto con il reale: ogni radice è negata.
L'animalesco Zampanò e la povera Gelsomina, sono due nullità senza
una vera identità, vittime di una Storia che non tiene traccia della
moltitudine. La loro unica verità, ormai (o già?) punto cardine
della poetica di Fellini, è la possibilità attrattiva nei confronti
del pubblico. Quando la loro strada, infinita linea retta, diviene un
punto, centro di una circonferenza di spettatori, solo allora i due
invisibili straccioni trovano conferma della loro esistenza nello
sguardo meravigliato di chi li osserva. Il trucco, la maschera, il
clown: nel simbolo massimo (come già notato nei Vitelloni)
dell'irrazionale ingiustizia della vita, dove si ride del dolore, e
le lacrime non hanno più un'origine definita, in questo corto
circuito emozionale abita la giustificazione, il sentimento più
prossimo ad una felicità identitaria. L'unica casa possibile per
Melina diviene il carretto di Zampanò, il mezzo del suo continuo
viaggiare e rinnovarsi, quanto di più altro
da sé.
(A questo proposito, consiglio la visione di Holy Motors di Leos
Carax).
L'attenzione
maniacale alla spettacolarità del gesto da Parte di Fellini porta
ancora una volta ad una messa in scena surreale e perfetta allo
stesso tempo. Sconfinati paesaggi in continua trasformazione,
spettacoli funambolici, folle sterminate: una grandissima varietà di
situazioni che non mette mai in secondo piano la magistrale
interpretazione di Giulietta Masina, che con i suoi movimenti
imbranati e il suo sguardo semplice e sognante, riesce a creare un
mondo all'interno del mondo. Incredibile come l'uso della musica sia
già giunto ad un livello elevato di consapevolezza, e vediamo, anzi
sentiamo, come essa diventi parte integrante della narrazione:
l'addio finale, drammatico e struggente, non è affidato alle parole
ma all'inconfondibile tema (scritto da Nino Rota) della tromba di Gelsomina. Musica e narrativa si fondono in modo fluido e naturale,
divenendo l'una l'estensione dell'altra.
Il
superamento del neorealismo avviene proprio nel suo campo formale,
nel suo spazio contenutistico: è lo scendere in
strada,
zona del reale per eccellenza, che apre definitivamente le porte ad
uno sguardo altro, ad un orizzonte oltre. Necessità espressiva ormai
spenta, dopo il goffo tentativo di rivitalizzazione dal nome “L'Amore
in città”, vero e proprio Frankenstein senza anima, il neorealismo
abbandona definitivamente il cinema italiano. Le spoglie macerie di
un'Italia occupata, liberata e poi occupata di nuovo, di un paese in
perenne ricostruzione, non sono più il punto di arrivo ma solo
quello di partenza: è l'individuo/regista che rivendica la sua
voglia di raccontare, il suo bisogno di creare. La strada apre le
porte al circo.
Non vorrei sembrare troppo ripetitivo né, tantomeno, melense... ancora una volta ottima critica, lucida e sapiente, che coinvolge e trascina. Pienamente d'accordo sulla straordinaria interpretazione di Giulietta Masina. Trovo particolarmente interessante il riferimento (ma non poteva essere altrimenti, vista la tua grande passione!) alla musica ed alla sua commistione con quanto espresso dal tema narrativo.
RispondiEliminaGrande lavoro, Michele!
Ma che te lo dico a fa... Grazie :)
EliminaUn grandissimo supporto dal mio (quasi) unico lettore! Sono quasi riuscito a prendere il ritmo giusto, e mi sto divertendo parecchio a scrivere questi post giornalmente. Nonostante tutto, i tuoi commenti mi lasciano ancora di stucco! Grazie ancora, a presto!