«Il crepuscolarismo di
Fellini, i motivi sempre uguali della sua metafisica e del suo
simbolismo, la sua partecipazione episodica alla realtà,
frammentaria, solo in parte nutrita di elementi e atteggiamenti
realistici, denunciano ancor più, questa volta, l'accennata
insincerità. Il film appare quasi prefabbricato: ritrovi in esso le
stesse componenti, anche formali, delle precedenti opere, analoghe
sequenze, il pianto del bambino o il cavallo della Strada,
quel vagabondare notturno, la festa. Picasso parla e agisce come il
Matto, e Iris sua moglie ha le movenze e il tono di Gelsomina».
Guido
Aristarco, Cinema nuovo, 25 settembre 1955
Ecco come la critica
marxista accoglieva Fellini all'uscita del film “Il Bidone”.
L'incapacità di andare oltre determinati stilemi porta alla
necessaria stroncatura di un film magnificamente felliniano. Lo stile
del regista, ormai consolidato, si dirige chiaramente all'opposto del
neorealismo, creando così un baratro insuperabile tra le sue opere e
la ricezione da parte della critica di “sinistra”. Se già “La
Strada” era stato tacciato di aprire le porte alla favola e allo
spiritualismo, non sorprende l'odio rivolto nei confronti de “Il
Bidone”.
Il problema, se così lo
si vuol chiamare, del film, è quello di essere diretto discendente
di tutta la filmografia di Fellini, figlio legittimo del regista di
Rimini. Proprio all'opposto dell'insincerità, come si può parlare
di prefabbricazione? La ricorrenza dei caratteri formali, il suo
“crepuscolarismo”, sono proprio questi a rendere il regista un
autore: il suo infondersi nell'opera, il suo smascherarsi
davanti al pubblico. A tal proposito, c'è una tesi molto
interessante di Jean
Renoir, che sosteneva
(parafrasando) che “un regista rifarà sempre lo stesso
film, con gli stessi temi, scelte e situazioni”.
Solo una critica viziata (da un impianto ideologico) può vedere in
ciò il punto di arrivo che porta alla demolizione, bisognerebbe
invece prenderlo come punto di partenza che, collocandolo
storicamente e stilisticamente, attribuisce subito al film una delle
qualità fondamentali: una forte identità autoriale. Cosa si può
dire allora de “Il Bidone”, ennesima reiterazione degli stessi
temi, ulteriore messa in scena di un ideale film sempre uguale a se
stesso?
È
chiaramente un film imperfetto, che non riesce a ripetere
l'eccellente equilibrio stilistico ed emozionale raggiunto ne “La
Strada”. Manca, a livello narrativo, quella forte connessione
empatica che non solo riusciva a legarci alla dolcissima Gelsomina
(Giulietta Masina) ma che faceva emozionare violentemente anche con
lo struggente pianto finale del burbero Zampanò (Anthony Quinn). Non
è un caso che con il progredire del film i personaggi vadano piano
piano a scomparire, senza neanche “salutare” lo spettatore.
L'unica figura costante è quella del (quasi) protagonista Augusto
(Broderick
Crawford), truffatore per antonomasia ma allo stesso tempo vittima dei
suoi stessi travestimenti, del suo continuo inganno: proprio nei
momenti in cui non recita, ma è costretto ad essere se stesso, si
scopre incapace a vivere. Film sbilanciato e impenetrabile, nasconde
proprio in questa figura la sua chiave di lettura: per Fellini forse
il film,, fino a questo punto, più autobiografico, più sentito,
dove il regista non smette mai di pensare al suo ruolo, al suo
rapporto con il pubblico, alla sua reale incapacità di essere onesto
con chi lo guarda: la sua impossibilità di essere (neo)realista. Una
pellicola che parla e dice molto, ma non ce ne accorgiamo. Il dialogo
è muto e biunivoco: ci sono solo l'autore e la sua opera.
"...ma io, che avevo tutto il tempo a mia disposizione, sarei rimasto volentieri delle ore a veder morire Broderick Crawford" - François Truffaut
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