Drive
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Titolo italiano | Regia | Anno | Genere | Con |
Drive | Nicolas Winding Refn | 2011 | Thriller, Noir | Ryan Gosling, Carey Mulligan |
Un pilota d'auto divide le sue giornate tra il lavoro di stuntman e quello di autista dei rapinatori di banche. La quotidianità si interrompe quando conosce la sua nuova vicina di casa, Irene: per sistemare il passato del suo compagno i tre finiscono in una situazione ben più complicata... |
Durante tutta la visione di Drive, ci si sente spaesati. Le pellicole di Nicolas Winding Refn non sembrano certo pensate per dare sollievo allo spettatore. Per indagare Drive, è impossibile non parlare dell'altro (primo) vero capolavoro del regista: Bronson. È interessante notare come entrambi i film si basino esclusivamente, anche se in modo diametralmente opposto, sulla potenza dirompente di una figura maschile: fisica e imponente quella di Tom Hardy, iconica quella di Ryan Gosling. Da questo punto di partenza i due film prendono due strade completamente opposte. Bronson si caratterizza come una riscrittura della realtà partendo da una dimensione interna, surreale. Lo spettatore viene gettato senza preavviso dentro alla mente schizofrenica di Charles Bronson, che racconta la sua vita in modo disconesso e onirico. Il monologo interiore è presentato come uno spettacolo, un'esibizione davanti ad un pubblico che c'è, ma non si riesce a percepire: il violento autismo del detenuto più pericoloso d'Inghilterra, viene genialmente rappresentato in un non-luogo fittizio. La realtà può presentarsi solo nel luogo massimo dell'assurdità e della fantasia, il teatro. Ciò che è massimamente violento, impulsivo e caotico, assume concretezza e validità nel momento stesso che è presentato dal suo punto di vista proprio: la mente di uno psicopatico. È il dispositivo cinema, così adoperato da Refn, che ha la pretesa e le capacità di spiegare pienamente il fondo oscuro del mondo, contemporaneamente estraniandosene.
Questa dinamica è, in un certo senso,
“accomodante” nei confronti dello spettatore: al senso di
dispersione dettato dalle premesse, si rimedia subito con
l'accettazione di tutto lo svolgimento del film. Drive, non è così
gentile. Infatti, rispetto al suo predecessore, il procedimento è
inverso: è la realtà ad essere il substrato di una narrazione
riducibile ad un impianto fiabesco, quindi volutamente non
realistico.
Lo schema di fondo è certamente quello
della fiaba. Il protagonista è il cavaliere senza nome, l'eroe
solitario senza un passato. Ci sono la donzella in pericolo e i
cattivi, monodimensionali nella loro crudeltà. Con l'inevitabile
confronto tra il bene e il male, il finale non apporta nessun
guadagno, nessuna conclusione (e nessuna furbata alla Inception, per
citare un finale aperto a caso) ma solo la sensazione di aver
assistito ad un racconto senza tempo, senza volto infinitamente
ripetibile nella sua universalità.
La forma, collaudata, non attinge a
nessun contenuto tipico: l'appiglio viene a mancare proprio nel
momento in cui ci si rende conto che l'immaginario usato per dare
vita a questa narrazione fantastica, attinge unicamente a ciò che
immaginario non lo è per niente. La grandezza di Refn risiede
proprio nel riuscire a far compenetrare questi due piani tramite una
consapevolezza delle potenzialità della macchina da presa. Il
cinema, quello di Refn, è in grado di catturare la realtà e
dominarla: tramite un processo di estetizzazione riesce a cogliere il
comune e a ipostatizzarlo, rendendolo fuori da ogni collocazione
possibile. Il film riesce a crearsi una sua personalissima identità
proprio nel presentare elementi familiari ma, paradossalmente, non
individualizzabili in uno spazio e in un tempo precisi. Si pensi al
protagonista: il suo essere non è dato da una storia pregressa, più
o meno raccontata, ma dalla potenza dell'impatto visivo che lo
presenta. La giacca con lo scorpione, lo stuzzicadenti, le mani in
tasca, i guanti indossati alla guida ed un'infinità di altri
dettagli. Così, anche il contesto: tutto, dalla fotografia alla
colonna sonora, contribuisce a rendere una Los Angeles moderna ma
allo stesso tempo esteticamente bloccata negli anni 80. Una città
senza tempo, per un eroe senza tempo.
L'abbandono della familiarità si ha
già dal titolo. “Drive” non è un film di macchine. Gli
inseguimenti ci sono, ma il perno non è certo individuabile nelle
scene di guida. Ciò che “guida” realmente il film è la
necessità del compimento fiabesco, che si configura in un impulso
alla violenza da parte del protagonista. Il cambiamento, dettato dal
piombare nella vita del Driver (Ryan Gosling) della figura femminile
di Irene (Carey Mulligan), deve
risolversi in niente e annullare tutto in un trionfo di violenza. Due
sono le scene cardine del film: la scena dell'ascensore e quella al
di fuori della pizzeria. Entrambe girate in modo maestoso, sono veri
e propri momenti di catarsi.
Nella prima, l'eroe capisce
l'impossibilità di caratterizzarsi in modo diverso, concreto. La sua
essenza rimarrà per sempre simbolica, il legame con l'altro è
impossibile. La violenza che salva, necessaria, è anche l'orrore di
sé, il distacco dalla realtà. Irene si allontana, le porte
automatiche si chiudono: la fiaba è costretta nel suo percorso.
Nella
seconda è il film stesso a percepire lo scarto identitario: la
realtà viene abbandonata, il protagonista elevato a supereroe. La
maschera da controfigura, completamente inespressiva, diviene la sua
nuova pelle, la sua essenza. Il mondo dall'altra parte della porta a
vetro, sporco e corrotto, fa si che l'isolamento sia una condanna
necessaria. Gosling diviene la controfigura di sé stesso nel
dispiacere di un destino da compiere: il supereroe è l'annullamento
di ogni pulsione di socialità e di contatto con il reale.
Chiudo con le parole del regista che, non a caso, ha tracciato una forte connessione fra Drive e il suo successivo film, di prossima uscita: "Only God forgives"
"[Only God Forgives] is very much a continuation of that language"—"[i]t's based on real emotions, but set in a heightened reality. It's a fairy tale."
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