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Il cinema di Carpenter è fantastico perché creativo. Il regista è riuscito con i suoi film, nonostante budget limitatissimi nella maggior parte delle sue produzioni, a dare origine a novità di ogni tipo che sono poi diventate, una volta assimilate dalla massa, linguaggio comune nel cinema contemporaneo. Ciò che non ha avuto successo all'epoca, è diventato oggetto di culto al giorno d'oggi. Uno dei suoi numerosi apporti al cinema americano è stato quello di aver fornito le basi per la creazione dell'action movie moderno, introducendo, anche grazie al sodalizio con Kurt Russell, due personaggi ormai divenuti vere e proprie icone.
Premessa: Napoleon Wilson in Distretto 13
Sebbene Kurt Russell non
sia presente nel film, è indubbio che in Carpenter inizi a
germogliare l'idea di un certo tipo di personaggio. Nella storia è
così presente Napoleon Wilson (Darwin Joston), vero prototipo di Snake Plissken.
L'impostazione è proprio quella che caratterizzerà il protagonista
di Escape From New York: totale assenza di background volta a
suscitare riverenza ed ammirazione da parte degli altri personaggi.
Attorno a Napoleone, così come a Plissken, ruota un mondo di
curiosità inesauribile.
Sapientemente, Carpenter non fornisce le motivazioni della condanna a morte di Napoleon |
Egli è una figura
scolpita nella tradizione e radicata nella coscienza collettiva,
volta unicamente a determinare il senso di inadeguatezza
dell'individuo: l'eroe è lì, tra il bene e il male, è nel giusto
ma per forza fuori dai confini della moralità accettata (e
accettabile).
Snake Plissken in “Escape From New York”
L'incipit di Escape From
New York è chiaro: la missione presentata, è un suicidio. Lì,
dentro al cuore pulsante dell'occidente, ma fuori dai vincoli imposti
dalla civilizzazione, nessun uomo libero potrebbe sopravvivere.
Carpenter crea questa situazione in modo da poter preparare l'unico
terreno possibile di azione per un personaggio del calibro di Snake
Plissken: egli è più di un semplice uomo, la sua figura deve
sfociare da subito nel mito.
Il suo presentarsi è
sempre destabilizzante (da qui la frase con cui verrà accolto sempre
“ti facevo più alto”) in quanto la leggenda è pura fantasia,
l'uomo che la rappresenta non può mai reggere il confronto con
l'immaginazione che lo crea e lo rende immortale. Esteticamente,
Carpenter crea un contenitore: il corpo di Kurt Russell diviene la
forma tipo dell'action hero, da li ai venti anni a seguire.
Dall'occhio bendato alla postura, dalle espressioni facciali alla
canottiera, vengono stilate le caratteristiche tipiche di una figura
destinata a numerose ri-concretizzazioni: è nata una maschera.
Quello che gli permette
di essere eretto a simbolo di una categoria, è il contenuto solo
alluso: i riferimenti al suo passato sono pochi e, volutamente,
confusi. E' leggenda proprio in quanto è presente ma mai realmente
raggiungibile: Snake è poco più di un miraggio, una vera e propria
ombra. Non servono dettagli che lo strapperebbero da quell'alone di
indeterminatezza e confusione che gli permettono di essere se stesso
e familiare a tutti, ma allo stesso tempo un grande buco nero nella
storia americana, un fantasma pensato e re-immaginato dalla
collettività in modo mai uguale. È nel rapporto con la collettività
che l'eroe si configura come tale: Snake sarà per sempre un
outsider, una figura fuori dal tempo che compare dal nulla per
risolvere la situazione e in fine scomparire di nuovo senza lasciare
traccia. Il finale non rappresenta solo il rifiuto di una società
gretta e spietata, rappresentante di quei falsi valori di cui si fa
portatore il civilizzato cittadino degli Stati Uniti d'America: la
sua è una condanna totale all'uomo in quanto tale. Niente divide il
Conte dal presidente degli USA, non c'è differenza tra la prigione
di stato di New York e una qualsiasi metropoli americana “legittima”.
L'umanità si dimostra incapace di configurarsi pacificamente,
l'impulso alla società è impossibile. Snake chiede il distacco
finale (“chiamami Plissken”), lascia il mondo all'autodistruzione
e rifiuta di fatto la socialità in sé, non una determinata etica in
favore di un'altra.
L'outsider per eccellenza, non può non essere un fumatore. |
Jack Burton in “Big Trouble in Little China”
In “Big Trouble in
Little China” la formula Carpenter/Russell viene ripresentata, ma
questa volta la prospettiva è completamente ribaltata. Jack Burton,
il personaggio impersonato da Kurt Russell, è la dissacrante parodia
di Snake Plissken e di tutti i suoi cloni. L'involucro, Russell, è lo
stesso ma stavolta ci troviamo ad una figura diametralmente opposta:
l'alone di mistero che serpeggia intorno a Snake in Jack Burton
svanisce completamente per una cristallina e inequivocabile
rappresentazione dell'idiozia americana. Il procedimento di
caratterizzazione è il medesimo: non c'è alcuna sovrabbondanza di
informazioni riguardo al personaggio, egli funziona in quanto è
presente. Con Snake è lo spettatore a caricare di aspettativa e a
riempire di contenuto una figura così potenzialmente carismatica,
grazie ad una gestione dei dialoghi impeccabile, mentre con Jack
Burton c'è poco da fantasticare. Egli è il simbolo della povertà
espressiva dell'americano medio: armato di jeans, canotta e panino in
mano, la sua unica aspirazione è ritrovare il suo camion. Jack
Burton parla di sé in terza persona, convinto non solo della sua
sagacia ma del suo stesso essere leggenda. Anche lui è un outsider,
ma in modo diverso: non c'è nessuna scelta razionale, nessuna
volontà di condanna, solo un'incapacità di fondo. Incapacità,
innanzitutto, di stare al passo con gli altri: tutte le scene di
azione iniziano con Burton che si mette fuori gioco da solo – mitra
che gli scappano dalle mani, calcinacci in testa che lo fanno
svenire, corpi di samurai morti che lo bloccano etc. etc. - e
finiscono nel momento esatto in cui ormai è pronto per scatenarsi.
Incapacità, però, anche di rendersi conto della situazione e del
proprio ruolo: ha importanza solo il suo camion, non capisce l'entità
della minaccia e salva la situazione nello stesso modo in cui gioca
d'azzardo. Burton è idiota in senso stretto.
La genialità di
Carpenter risiede non solo nel confezionare un film innovativo,
adrenalinico e divertentissimo ma, soprattutto, nell'usare come punto
di riferimento un personaggio unico ed irripetibile, Jack Burton: la
ridicolizzazione di una delle sue creazioni più riuscite e di tutti
i suoi (impliciti?) epigoni.
È una questione di riflessi. E di rossetto. |
Snake Plissken, di nuovo, in “Escape from L.A.”
Infine bisogna
confrontarsi con il seguito di Escape from New York, ovvero Escape
from L.A.
Dopo un'assenza di più
di un decennio (sia nel film che nella realtà) Snake Plissken torna
sul grande schermo per compiere un'altra, improbabile, fuga. Il film,
inevitabile fallimento sia di critica che di pubblico, è
praticamente un remake del primo episodio, più che un suo sequel. In
che cosa consiste questo remake? Carpenter non fa altro che
riproporre lo schema di Escape From New York invariato, con il
medesimo personaggio in uno scenario modernizzato di quindici anni.
Il film presenta, dunque, non la parodia dell'eroe, ma la messa in
ridicolo dell'apparato narrativo in cui esso si muove: l'action
movie. Nel tempo trascorso il genere ha subito un'evoluzione che lo
ha portato ad implodere: i film e i loro protagonisti sono diventati
la caricatura di loro stessi. Escape From L.A. Coglie in pieno questa
deriva: la colonna sonora pacchiana composta da brani non pensati per
il film (anche i TooL, per quanto intrinsecamente californiani,
stridono una volta sovrapposti alle immagini), effetti speciali non
necessari e, più generalmente, una fotografia improntata alla
spettacolarizzazione. La situazione e le premesse sono le stesse
dell'originale, ma qui non funziona più niente, tutto è votato
all'eccesso e all'esagerazione. Il film gioca in continuazione con le
aspettative dello spettatore e si diverte nel tradirle in
successione: così dove si intravede un'arena e si immagina la
riproduzione dello storico combattimento tra Snake e Slag, tutto ciò
che accade è una pseudo-partita a basket. Gli esempi sono
innumerevoli, ma l'intento è chiaro: il personaggio è invecchiato
ma eterno, il genere (proprio perché spettacolarizzato) ormai morto.
Il finale può essere
tranquillamente letto in chiave cinematografica. Non c'è più
l'anarchica condanna di tutta l'umanità, ma la voglia del regista di
ricominciare da capo annullando una storia ormai satura. Storia di un
modo di fare cinema, volontariamente o meno, iniziata anche da lui.
Si riparte da zero, ma Snake sopravvive. È lui l'ultimo eroe
possibile, l'unico simbolo immortale di una forza distruttrice senza
padroni.
Hideo Kojima, nella creazione della stirpe dei protagonisti della sua acclamatissima e famosissima serie di videogiochi "Metal Gear", rende chiaramente omaggio a Snake (tanto da utilizzare anche lo stesso nome per Solid Snake)
Big Boss, il soldato leggendario. |
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