Tanta carne al fuoco, per la serie: ma dove li trovi tutti questi soldi? Seguirà: tranquilli, stanno per finire.
Iniziamo:
Musicalmente beccatevi niente popò di meno che Django (quello con 3 dita, non quello negro) e i Sigur Rós
Quanto è bella la stampa sul cd di Takk? Per il chitarrista manouche abbiamo invece una compilation dal nome Nuages.
Il 20 aprile c'è stato il Record Store Day e di conseguenza sono uscite parecchie cose interessanti. La feltrinelli proponeva una piccola sezione dedicata a questo evento, mi sono preso un 7'' dei Beatles, che a quanto pare non risulta nel catalogo ufficiale delle uscite del RSD 2013. Boh! Comunque il disco era troppo carino per non prenderlo:
A side: Love me do B side: P.S. I love you
Per quanto riguarda il ciMena, un sacco di film belli. Il primo è L'angelo sterminatore di Luis Buñuel (avete letto la recensione, vero?!?), in una bellissima versione edita dalla Dynit:
Si prosegue con un altro grande classico: Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, carina l'edizione, peccato per il booklet solo digitale:
Preso anche Big Fish di Tim Burton, in Bluray. Film visto solo di recente, ma che mi ha letteralmente stregato, sotto i 10 euro sarebbe stato un vero peccato lasciarselo sfuggire!
Si continua con un altro grande classicone, Metropolis di Fritz Lang:
Infine un film a cui sono particolarmente legato: Essi Vivono, di John Carpenter. In un'edizione, tral'altro, gustosissima: è presente un booklet pieno di informazioni e analisi dettagliate, scritto da Massimo Causo:
Puntuali come la tappa al bagno dopo il caffè mattutino, escono anche questa settimana i Pink Floyd in edicola. Questa volta è il turno di The Divison Bell:
Continua l'appuntamento (a questo punto credo ogni due settimane) con le ERB, episodio niente male, per la seconda volta di fila:
Per ora è tutto, anche se nei prossimi giorni arriverà un ordine niente male da ebay. Poi i soldi saranno finiti sul serio.
Dopo una serata a teatro, una famiglia di
borghesi invita un gruppo di aristocratici a cena. Gli invitati,
stranamente, si ritrovano a passare la notte nel salone della
casa. La mattina seguente, con loro grande errore, realizzano di
non essere in grado di uscire dalla casa...
Giustificazione sulla
pretesa del dialogo
È dopo la visione di
pellicole come L'angelo Sterminatore che ci si rende conto che il
senso si genera nella sua assenza. È la cultura che ci impone il
nesso logico, è l'horror vacui ad esigere il totale riempimento. Di
fronte a questo film, essenzialmente impenetrabile, è difficile
trovare l'approccio corretto. Escludendo qualsiasi intento
interpretativo, una sua recensione non può che basarsi fortemente
sul punto di vista dello spettatore. Superata la premessa narrativa
della prigionia nella casa, unico dato concreto della storia, il
resto è lasciato al senso interno del fruitore: l'opera può
acquistare una direzione, solo se presa in simbiosi con ogni sua
determinata ricezione. Il testo proposto è quindi la presa in
considerazione, fortemente soggettiva, di alcuni elementi arbitrari.
Punti sconnessi, quasi appunti scritti di getto, risultano per me
l'unica via di accesso, l'unica strada percorribile in un labirinto
sconfinato. L'unico senso possibile, nel surrealismo più autentico.
Storia di un ritardo
Parlare oggi di un film
uscito nel 1962 potrebbe sembrare un contro-senso, un appuntamento mancato con un dialogo ormai morto. Credo, però, che l'assenza di contenuto logico-razionale
permetta a quest'opera di uscire dal suo tempo e riformularsi ad ogni
sua visione. L'angelo sterminatore sempre sarà, pur non essendo mai.
Suggerimenti, suggestioni, colgono lo spettatore e lo scuotono nel
profondo, scevro da ogni sua determinazione intellettuale. Il
vantaggio di essere in ritardo è quello di aver disponibile una
maggior consapevolezza sulla genesi dell'opera, grazie a studi e
ricerche svolte in merito. Leggendo le informazioni contenute nel
libretto dell'edizione integrale della dynit, emerge un punto
fondamentale: la prima edizione italiana è falsata. Nel montaggio,
in quanto non viene colta la radicale scelta di Buñuel,
e nella traduzione. Molte scene riportano dialoghi completamente
modificati che stravolgono il senso della pellicola. O meglio: con
l'inserimento di queste modifiche, i traduttori, alludono ad un
disegno, ad un senso vero e proprio, che non è presente nell'opera
originale. Ad esempio, identificando l'orso con l'angelo
sterminatore, si depista completamente lo spettatore, in quanto è
portato a credere che la comprensione del film, una volta
riorganizzati gli indizi, sia possibile. Tutto ciò non può
avverarsi. Le stesse parole di Buñuel
sono chiarificatorie:
“Se il film che state
per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È
ripetitivo come la vita, e, come essa, soggetto a molte
interpretazioni. L'autore dichiara che non ha voluto giocare su dei
simboli, almeno coscientemente, Forse la migliore spiegazione per
L'angelo sterminatore è che, ragionevolmente, non ne ha alcuna”
L'immobilità dell'uomo:
coazione a ripetere
Comunemente riconosciuto,
il perno narrativo della cattività nel salone può essere visto come
una metafora dell'incapacità di rinnovarsi da parte della borghesia
e, nel finale, della Chiesa. Esse divengono istituzioni morenti in
quanto non in grado di uscire dal loro dogmatismo. Non possono far
parte della società, lo spazio comune è vietato. L'isolamento,
però, è una condanna auto-imposta: non c'è nessun ostacolo, solo
un'incapacità di fondo. Il difetto, la mancanza, risiede nella
volontà mistificatoria di escludere la corporalità dalla propria
essenza. Anche nel momento più basso e degradante, dove gli uomini
ormai hanno perso la conquista della posizione eretta e si aggirano
per il salone a quattro zampe, l'istinto di conservazione di una
coscienza collettiva non si spegne. La morte, il sesso e la
passionalità, il putrido e gli escrementi, tutto viene celato: che
sia un armadio o uno sgabuzzino, tutto viene chiuso a chiave e celato
alla vista. Nel palcoscenico della propria esistenza, la borghesia in
putrefazione non può mettere in scena ciò che razionalmente sfugge
al controllo dei suoi componenti. Le sfere non individualizzabili
delle pulsioni e dell'inconscio, insieme all'ineludibilità della
propria corporalità, devono essere rifuggite in nome di un'identità
collettiva, pena l'estinzione. La sopravvivenza viene dunque affidata
alla ripetizione, intesa come volontà di ritorno ad una condizione
che esula dal confronto, dall'autocoscienza. Ma questa non è una
salvezza: il senso della vita non può essere racchiuso in un rifiuto
razionale, non si può pretendere l'atemporalità nell'esistenza.
L'ottica generale non è quindi quella limitata della borghesia, è
la vita ad essere chiamata in causa, come accennato dall'autore nelle
parole introduttive al film. L'angelo sterminatore, mai nominato
nella versione originale, è a mio avviso il dramma identitario: è
esso che reclama a sé, al proprio sguardo giudicante, l'uomo nel suo
più intimo luogo. La società contemporanea è destinata
all'immobilismo. L'uomo è un animale morente, le sovrastrutture
istituite (emblematica la coazione a ripetere nella chiesa) un
medicinale che non cura ma ritarda all'infinito l'inevitabile fine.
Il montaggio nelle
relazioni
Le convenzioni sono la
sovrastruttura che crea la maschera dell'animale: l'uomo. Ciò che
esso guadagna in identità lo perde in possibilità di relazione. In
questa ottica colgo un senso nelle scelte di montaggio: le più
grandi e palesi ripetizioni, avvengono nell'introduzione degli
ospiti. Sia quando tutti entrano nel contesto, la villa, sia nel
momento in cui si presentano tra di loro. Il mondo asettico della
formalità, imbrigliato nella violenza delle regole comportamentali,
annulla qualsiasi deriva contenutistica del conoscersi: gli incontri
avverranno infinite volte, ma non saranno mai genuini. Non c'è
nessun reale intento comunicativo nell'affacciarsi all'altro e una
reazione vale l'altra: in ogni caso, non sarà recepita.
Il simbolismo: lo scherzo
Il simbolismo alla base
dell'opera è accidentale. Le immagini prese in prestito sono solo
richiami all'esperienza, suggestioni allusive ad un vissuto privato
ed impenetrabile del regista. La critica interpretativa non può
muoversi su di un piano razionalmente logico, non c'è alcun nesso
tra gli elementi del film. L'angelo sterminatore non è un'entità
metafisica, non c'è nessun rimando reale alla Bibbia: esso è solo
un titolo accattivante, scelto per attirare l'attenzione tramite un
potente suggerimento, destinato però a non rappresentare ciò a cui
allude.
La cena, pensata dalla
padrona come un grande scherzo, è un indizio di questa costruzione.
Gli agnelli e l'orso, che nella loro presenza così
decontestualizzante scatenano un processo inquisitorio nella mente
dello spettatore (agnelli come vittime sacrificali? L'orso come
riferimento alla russia e alla sua egemonia? O va interpretato
anch'esso in senso biblico) che muore nello stesso momento in cui si
origina: gli animali solo solo un altro tassello di una grande farsa,
non ci sarà mai dato conoscere il loro ruolo. La pellicola è
surrealista in senso stretto.
Inizia così la rubrica
delle recensioni su richiesta. Crash è un film che non avrei mai
visto. Il Dottor C. me ne ha consigliato la visione. Il fatto che
consideri il Dottor C. una persona ai limiti della moralità, in
altre situazioni mi avrebbe portato ad ignorare con un sorriso di
circostanza il consiglio di un individuo che, insomma, non è che
abbia i gusti proprio raffinati. Nella sua macchina ho sempre
ascoltato due soli cd: un live di Ligabue e “La dura legge del
gol!” degli 883. Ovvio che al nome di Crash, seguito da quello di
Sandra Bullock e condito con un per niente rassicurante “e invece
guarda, ti sorprenderà”, sarei dovuto fuggire a gambe levate. Il
Dottor C. però è il primo ospite/protagonista di questa rubrica.
Non si scappa. Ecco a voi:
In una Los Angeles violenta e razzista, sembra
impossibile ormai rapportarsi all'altro in maniera genuina e
sincera. Numerosi personaggi si muovono nella città, isolati
dalla loro stessa diffidenza. Agiscono in un contesto che li rende
intimamente vicini, seppur inconsapevolmente...
Crash è un disastro. Se
il film fosse un incidente sarebbe un tamponamento maldestro, di
quelli che non ti capaciti di come sia potuto accadere. Sei la, pronto a
fare il CID, incazzato nero, ma alla fine nessuna delle due macchine
si è abbozzata. Rimane l'incazzatura, ormai mista al risentimento e
a un senso di rassegnazione. Uno sguardo d'intesa con l'altro
autista, si rimane in silenzio, si rientra in macchina e via,
estranei come prima. Ma come guida la gente? Era meglio rimanere a
casa.
In una recente intervista, Sandra Bullock ha dichiarato di ispirarsi pesantemente alla figura di Daniela Santanchè.
L'intento di Crash è
quello di risultare un film intelligente, impegnato. Non riesce però
a sollevarsi da una pretestuosità di fondo che lo incolla alla
mediocrità. La volontà di dipingere un grande affresco, dove ogni
singolo evento è collegato in maniera naturale
da una cieca ma imperscrutabile causalità, fallisce nell'essere il perno della
narrazione e risulta solo un piccolo accidente. Da fissare l'attenzione sull'anno di uscita del film, il 2004. È l'anno in cui inizia anche
Lost: l'immaginario americano sembra volersi appropriare di un
misticismo fatalista culturalmente lontano dalle sue radici. I
risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Da notare subito due
aspetti del film. Il mio odio per Sandra Bullock non inficia certo la pretesa di universalità del mio giudizio: oggettivamente, è
proprio inguardabile nella sua plasticosità. In più ha il ruolo di
una stronza colossale aggiunta solo per far numero. Per il resto, tra
Matt Dillon, Ludacris e Brendan Fraser la scelta del cast risulta
poco credibile e, volendo, infelice.
Anche la colonna sonora
si inserisce perfettamente in un clima di banalità imperante. Si
inizia con una pedante melodia dal sapore orientale, che ci
accompagna per tre quarti del film, usata per ricordarci
ossessivamente – per la serie: non si sa mai quanto può essere
stupido chi ci guarda – che siamo tutti collegati, che ci sono il karma
e tanti altri concetti sfuggevoli che nella loro non reale presenza ci
DEVONO impressionare. La musica segue il dipanarsi della storia, e
all'americana redenzione di una società piena di individui distanti
e razzisti, ma tutto sommato buoni se sollecitati dal caso,
corrisponde il melenso pop-rock degli Stereophonics. La classica canzone da
sguardi fissi nel vuoto durante la realizzazione “ammazza che cosa
assurda la vita” (ma anche questo film non scherza). Da un
punto di vista musicale, il prodotto finale non riesce a superare l'alone di mediocrità
che circoscrive ogni suo aspetto.
Per quanto riguarda il
lato narrativo, la forzatura non risiede solo nell'intreccio di
storie sostanzialmente banali e stereotipate, ma nella modalità in
cui esso stesso si dipana. Abbiamo così la prima metà del film
volta a delineare in modo manicheo i personaggi: circa un'ora di
banalità e insulti razzisti solo per farci capire quanto l'uomo
moderno sia incapace di rapportarsi verso l'altro. Tutto gestito in
un modo così stucchevole e ridondante da perdere di credibilità:
non che Sandra Bullock ne abbia mai avuta una. Ma alla battuta di Don
Cheadle “mamma lasciami perdere sto facendo sesso con una donna
bianca” non si sa se bisogna ridere o piangere.
"Ciao mamma"
La seconda parte del
film, partendo da delle basi non proprio solide, si risolve in un
nulla di fatto: gli “incontri”, non necessari e telefonati
praticamente da inizio film, non sono privi di pathos emozionale, ma
sono incapaci di concretizzarsi in qualcosa di interessante. Il
regista, Haggins, ci ricorda che dopotutto la sua è una produzione
Hollywoodiana, l'ennesimo polpettone sentimentalista e melodrammatico
che non ha il coraggio di turbare fino in fondo i suoi potenziali
spettatori.
Il film si chiude nel più
classico dei modi: redenzione, consapevolezza (anche se non si sa
bene di cosa) ed ennesimo, gratuito, incidente stradale che vede
coinvolta, guarda caso, una tizia che era già apparsa su schermo, ma
di cui sinceramente non ce ne fregava niente. Il film, per l'ultima
volta, ammicca spudoratamente allo spettatore, per appellarsi al suo
auto-compiacimento implicito nel riconoscimento: peccato che il
puzzle da ricostruire sia di soli 5 pezzi, non c'è nessuna arguzia
di fondo nel comprendere la trama, solo una ruffiana messa in scena
pensata per accrescere l'auto-stima dello spettatore medio.
Alla fine, non rimane che stringere un santino di
San Cristoforo (che a quanto pare, porta sfiga) e si piange. Un pianto triste dove scorrono lacrime di rammarico ma consapevoli in quanto pseudo-edificanti: in fondo che ci vuoi fare, è la vita. Gli
americani, però, non sanno guidare.
San Cristoforo, pensaci tu...
Alcune scene
- Ludacris si cimenta in
uno spiegone su come funzionino in realtà le dinamiche razziste in
una società dominata dalla sfacciataggine dell'uomo bianco. Tutto
con un dialogo frenetico, senza pause, una parlantina veramente cool.
Poi, portato lo spettatore dalla parte del povero discriminato,
estrae la pistola e ruba una macchina. Due considerazioni:
1) Hai
comunque rapinato Sandra Bullock e Brendan Fraser, chi sono io per
condannarti?
2) Tutto questo non può
che riportare alla mente la scena iniziale di Pulp Fiction. Solo che
quella scena funzionava in ogni suo aspetto: didaloghi ed attori compresi. La rapina coglieva di sorpresa nel film di Tarantino, qui
strappa un sorriso.
Fraser in una delle sue caratteristiche, ed involontarie, espressioni facciali.
- Scena di grande pathos
quella del poliziotto che si prodiga per salvare la donna, molestata
in precedenza (!!!), intrappolata in una macchina che sta per
esplodere. Una giusta scelta delle inquadrature e dei tempi riesce a
catturare l'attenzione. Peccato che tutto si risolva, annullando qualsiasi aspettativa e credibilità, nel migliore dei modi possibili. Donna salva, poliziotto
semi-redento.
E vissero felici e contenti.
- Sintomatica la scena del
set televisivo. Il registra, viene obbligato a ripetere una scena da
un altro personaggio, di cui non si capisce bene il ruolo, ma ce lo
immaginiamo. La scena, buona per il regista, è da rifare perchè
l'attore nero ha usato un linguaggio non consono a un personaggio di
colore. La tv deve riproporre gli stereotipi che fanno sentire comodi
gli spettatori sulla loro poltrona. Qui il violento ed implicito
imporsi del razzismo nella comunicazione di massa. Peccato che tutto
questo arrivi dopo quaranta minuti di insulti a cinesi, negri,
ispanici etc. etc. portati unicamente per caratterizzare i personaggi
e il contesto in cui si muovono. Quello che vuole passare per un atto
di denuncia, è in realtà l'unico terreno su cui la pellicola riesce
a muoversi e a svilupparsi. Il film drammaticamente, poiché
inconsapevolmente, accusa sé stesso, nel disperato tentativo di
legittimare una banale identità.
Non bisogna mollare, anche quando lo slancio iniziale tende a spegnersi. Eccoci dunque all'ennesimo (non richiesto) aggiornamento sui miei acquisti.
Neanche a farlo a posta, si parlava nel precedente aggiornamento proprio di Brent Hinds e di Mastodon, ed eccolo che arriva nella cassetta delle lettere proprio lui: Remission
A quanto pare mi sono beccato la versione argentina distribuita dalla "Icarus": le magie dell'e-shopping!
Artwork stupendo, musicalmente uno tra i più belli dei mastodon (secondo solo a Leviathan). Un esordio di una brutalità e di una cattiveria senza eguali, tutto accompagnato dai primi accenni ad alcune atmosfere che caratterizzeranno i loro lavori successivi. Un must.
Proseguiamo con l'acquisto veramente nerd della settimana. Ordinati prima del 14 febbraio (si, è una sorta di regalo di San Valentino) si palesano solo qualche giorno fa. Anche del buon Frusciante se ne parlava lo scorso post, e infatti:
Doppio dvd licaonico con tutte le puntate della stagione 2011/2012 delle recensioni di Frusciante in versione "uncut", ovvero: cosa succede senza montaggio? Federico che da il resto ai clienti, sostanzialmente. In più anche la maglietta, questa si nerdissima, da vero fanboy: non capisci un cazzo di cinema, non è grave. Finalmente potrò darmi un tono anche io.
Ed eccoci alla segnalazione settimanale pinkfloydiana. È uscito UMMAGUMMA
Doppio cd a 12,90 euros... non male!
Per ora mi limito a rinnovare la promessa della prima recensione su richiesta, un impegno è un impegno. Aggiungo che, avendo giocato e finito Bioshock Infinite sento la necessità di scrivere qualcosa a riguardo. Un'esperienza unica, credo di aver riacquistato fiducia nel videogioco come "medium". Come veicolo di un contenuto, unico nel suo configurarsi ludicamente. Forse in tutto il genere umano. Ken Levine, ti amo.
Quick update tanto per non far morire subito il blog. Per la serie "finanze giustamente investite", arriva per posta l'ennesimo (ormai sono quasi finiti) ciddì dei Dillinger Escape Plan: signori e signore, ecco a voi Ire Works
Artwork, come al solito, molto accattivante. Apprezzo molto il fatto che ogni loro album si rinnovi completamente dal punto di vista del design. Aspettando il futuro acquisto di Option: Paralysis, ricordo la presenza di Brent Hinds, chitarrista dei Mastodon, nella traccia nr. 12: Horse Hunter
Sul Tubo, invece, è uscito sul canale dei Licaoni, il nuovo episodio delle videorecensioni di Frusciante. Stavolta la monografia è dedicata a Rob Zombie:
Uno degli stimoli principali all'apertura di questo blog, e quindi al mio interesse critico verso il cinema, viene proprio da questo toscanaccio doc. Le sue recensioni, oltre ad essere divertentissime, non solo mi hanno fatto conoscere autori mai sentiti prima, ma mi sono state utili ad indicare un approccio "diverso" (di sicuro non l'unico possibile) al cinema come medium. Un sentito ringraziamento a Frusciante e a tutti i Licaoni.
Annuncio, solo per impormi l'obbligo, che presto arriverà una recensione di un film su richiesta. Recensione in senso stretto, non un'analisi particolare. Magari pure divertente. Chissà.
Una piccola pausa dalle analisi/pseudo-recensioni cinemaografiche per lanciare due mini-rubriche. Sicuramente meno pretenziose, indicano da una parte, l'esplicita volontà di esplorare tutte le potenzialità offerte da un blog, dall'altra una disarmante assenza di direzionalità in quello che scrivo. Cosa sto facendo?
In the Mailbox: Principalmente foto dei miei acquisti, che nel 90% dei casi arrivano via posta, da qui l'originalissimo titolo, più qualche accenno alle novità pubblicate nel panorama musicale/cinematografico e non solo.
Cosa aspettarsi dal futuro: una sorta di agenda/reminder/sveglia su cosa verrà pubblicato. Musica, cinema, libri, qualsiasi cosa. Indicare dove catalizzare la propria attenzione, ma soprattutto perchè farlo. Cosa ci aspetta? Segnamolo sul calendario.
Ok? Ok. Pronti, partenza...
In the Mailbox
Grazie a Discogs, ho finalmente trovato un modo di soddisfare il mio feticismo (musicalmente) periferico. È arrivata oggi la seconda parte di un ordine proveniente dall'Inghilterra:
Insolita l'idea della copertina composta dal booklet più un pezzo di cartoncino ripiegato
Unita insieme alla prima parte dell'ordine, che consiste in Under the Running Board, Miss Machine e (l'anonimo quanto trascurabilissimo, ahimè) The Beyond dei Cult of Luna, si potrebbe tranquillamente pensare che io sia un grandissimo fan dei Dillinger Escape Plan, o al massimo uno piscopatico con pessimi gusti musicali.
Notevole il digipack di Miss Machine con dvd bonus. I video delle performance live sono a dir poco inquietanti.
Scarto entrambe le ipotesi, sono solo un curioso ascoltatore del tipo "se i cd te li tirano dietro... perchè no?" Capitolo a parte per quanto riguarda Mike Patton. Per lui si, sono pazzo e fanboy.
Segnalo, inoltre l'uscita, del quinto cd della collana "Pink Floyd", reperibile in edicola con la Repubblica o TV Sorrisi e canzoni. Stavolta tocca ad Animals:
La riedizione è molto carina, digipack, copertine originali e booklet pieni di foto. Nessun logo di riviste o cose del genere. L'unico difetto la stampa sul cd, tematicamente uguale per ogni uscita, cambia solo la scelta cromatica. Peccato.
Questa edizione si basa sulle tracce audio della versione "remastered" delle opere dei Pink Floyd uscita nel 2011
Acquisto consigliato, l'importante è non comprare TV Sorrisi e canzoni.
Infine, non è nella mailbox ma è comunque uscito, ecco a voi l'ultimo episodio pubblicato delle Epic Rap Battles of History. Un divertentissimo Skrillex Vs. Mozart riporta la serie ai suoi antichi fasti:
Cosa aspettarsi dal futuro
- Per puro caso, oggi è la loro giornata, scopro che il 15 maggio uscirà il nuovo cd dei Dillinger Escape Plan, dal titolo: One of us is the Killer per l'etichetta Party Smasher/Sumerian.
Qui il primo singolo estratto dall'album: Prancer. Sicuramente un disco da tenere d'occhio, se il genere piace. Difficile riuscire ad assimilarli, ma in quello che fanno (per alcuni: cacofonia) sono tra i migliori.
- Continua l'attesa per l'omonimo album di debutto dei Palms. Supergruppo formato da Jeff Caxide (basso), Aaron Harris (batteria), Bryant Cliffor Meyer (tastiere), tutti e tre ex-membri dei defunti Isis, con l'apporto di Chino Moreno (voce), ben più famoso frontman dei Deftones. La curiosità c'è, anche se la puzza di fregatura un pò si respira: i superfeaturing raramente (vedi anche: mai) rendono giustizia alle aspettative.
L'album uscirà il 25/6/2013 sotto l'etichetta Ipecac Recordings. Si, quella di Mike Patton. Si, lo amo.
Oh, quanto lo amo...
- Sempre a Maggio, il 17 questa volta, uscirà il nuovo album del simpatico duo di robottini Daft Punk. Il titolo: Random Access Memory. Dopo i due capolavori di Homework e Discovery, il mezzo (falso) passo falso di Human After All e una serie di videoclip musicali che fatto storia, un pò tutti siamo in trepidante attesa. Secondo me, ce la fanno.
One more time!
Dal fronte cinematografico, cosa ci aspetta?
- Innanzitutto, bisogna avere paura del prequel di 300, 300: rise of an empire, diretto sempre da Zack Snyder, e del secondo adattamento su pellicola di Sin City, Sin City: A Dame to Kill For. Sebbene le aspettative del prequel di 300 siano ben più basse dell'altro titolo atteso, i terribili presagi ci sono per entrambi: Frank Miller, indirizzato dal suo fascismo (non tanto) latente, è un soggetto irrequieto di difficile prevedibilità. Adattarlo al cinema poi, è sempre una scommessa. Consoliamoci che da una parte abbiamo Eva Green, dall'altra Jessica Alba. Per tutti i gusti.
Come dimenticare?
- Si dice che David Lynch, anzi è proprio lui a dirlo, insieme a Laura Dern, sia a lavoro sul suo prossimo progetto. Cinematografico, questa volta. A quanto pare anche loro hanno avuto bisogno di tempo per riprendersi da Inland Empire. Comunque, godo.
"Ci sono un napoletano, un romano e un carabiniere. Il primo fa:.."
- Sembra che il remake di Escape From New York, prima o poi (speriamo poi), si farà. Tra i papabili Snake Plissken abbiamo: Jason Statham e Tom Hardy. Il primo un pelato, il secondo una scelta potenzialmente interessante, anche se difficile da immaginare come sostituto di Kurt Russel.
Tom Hardy in Bronson. Per Snake, serviranno sicuramente più capelli. E una benda. Ah, e una canotta.
- È uscito anche in Italia il film The Place Beyond the Pines, da noi poeticamente ribattezzato "Come un tuono", diretto da Derek Cianfrance. La scelta di Ryan Gosling come protagonista invoglia certo alla visione, pareri della critica parecchio discordanti sia in America che qui in Italia, reprimono questa gioia. Potenzialmente, un polpettone. Vedremo. La colonna sonora, che ve lo dico a fare, è di Mike Patton. Eh già. È ovunque. Come fate a non amarlo?
- L'ombra del dubbio svanisce (se fossi veramente sagace direi: "[...]svanisce per essere rimpiazzata dall'ombra proiettata da una monolitica erezione scaturita dalla sola visione..." Ma aspetterò di avere un po' più di confidenza con il medium blog. Giocarsi la prima allusione sessuale è un passo importante. Non mi sento ancora pronto, aspetto la persona giusta etc. etc.) con il primo trailer della nuova fatica Refn/Gosling, Only God Forgives. Si continua sulla stessa scia di Drive, l'impazienza è alle stelle.
A parte questo, è bandita la visione di futuri trailer. Bisogna andare al cinema e potersi ancora meravigliare.
Il cinema di Carpenter è
fantastico perché creativo. Il regista è riuscito con i suoi film,
nonostante budget limitatissimi nella maggior parte delle sue produzioni, a dare
origine a novità di ogni tipo che sono poi diventate, una volta
assimilate dalla massa, linguaggio comune nel cinema contemporaneo. Ciò
che non ha avuto successo all'epoca, è diventato oggetto di culto al
giorno d'oggi. Uno dei suoi numerosi apporti al cinema americano è
stato quello di aver fornito le basi per la creazione dell'action
movie moderno, introducendo, anche grazie al sodalizio con Kurt
Russell, due personaggi ormai divenuti vere e proprie icone.
Premessa: Napoleon Wilson in Distretto 13
Sebbene Kurt Russell non
sia presente nel film, è indubbio che in Carpenter inizi a
germogliare l'idea di un certo tipo di personaggio. Nella storia è
così presente Napoleon Wilson (Darwin Joston), vero prototipo di Snake Plissken.
L'impostazione è proprio quella che caratterizzerà il protagonista
di Escape From New York: totale assenza di background volta a
suscitare riverenza ed ammirazione da parte degli altri personaggi.
Attorno a Napoleone, così come a Plissken, ruota un mondo di
curiosità inesauribile.
Sapientemente, Carpenter non fornisce le motivazioni della condanna a morte di Napoleon
Egli è una figura
scolpita nella tradizione e radicata nella coscienza collettiva,
volta unicamente a determinare il senso di inadeguatezza
dell'individuo: l'eroe è lì, tra il bene e il male, è nel giusto
ma per forza fuori dai confini della moralità accettata (e
accettabile).
Snake Plissken in “Escape
From New York”
L'incipit di Escape From
New York è chiaro: la missione presentata, è un suicidio. Lì,
dentro al cuore pulsante dell'occidente, ma fuori dai vincoli imposti
dalla civilizzazione, nessun uomo libero potrebbe sopravvivere.
Carpenter crea questa situazione in modo da poter preparare l'unico
terreno possibile di azione per un personaggio del calibro di Snake
Plissken: egli è più di un semplice uomo, la sua figura deve
sfociare da subito nel mito.
Il suo presentarsi è
sempre destabilizzante (da qui la frase con cui verrà accolto sempre
“ti facevo più alto”) in quanto la leggenda è pura fantasia,
l'uomo che la rappresenta non può mai reggere il confronto con
l'immaginazione che lo crea e lo rende immortale. Esteticamente,
Carpenter crea un contenitore: il corpo di Kurt Russell diviene la
forma tipo dell'action hero, da li ai venti anni a seguire.
Dall'occhio bendato alla postura, dalle espressioni facciali alla
canottiera, vengono stilate le caratteristiche tipiche di una figura
destinata a numerose ri-concretizzazioni: è nata una maschera.
Quello che gli permette
di essere eretto a simbolo di una categoria, è il contenuto solo
alluso: i riferimenti al suo passato sono pochi e, volutamente,
confusi. E' leggenda proprio in quanto è presente ma mai realmente
raggiungibile: Snake è poco più di un miraggio, una vera e propria
ombra. Non servono dettagli che lo strapperebbero da quell'alone di
indeterminatezza e confusione che gli permettono di essere se stesso
e familiare a tutti, ma allo stesso tempo un grande buco nero nella
storia americana, un fantasma pensato e re-immaginato dalla
collettività in modo mai uguale. È nel rapporto con la collettività
che l'eroe si configura come tale: Snake sarà per sempre un
outsider, una figura fuori dal tempo che compare dal nulla per
risolvere la situazione e in fine scomparire di nuovo senza lasciare
traccia. Il finale non rappresenta solo il rifiuto di una società
gretta e spietata, rappresentante di quei falsi valori di cui si fa
portatore il civilizzato cittadino degli Stati Uniti d'America: la
sua è una condanna totale all'uomo in quanto tale. Niente divide il
Conte dal presidente degli USA, non c'è differenza tra la prigione
di stato di New York e una qualsiasi metropoli americana “legittima”.
L'umanità si dimostra incapace di configurarsi pacificamente,
l'impulso alla società è impossibile. Snake chiede il distacco
finale (“chiamami Plissken”), lascia il mondo all'autodistruzione
e rifiuta di fatto la socialità in sé, non una determinata etica in
favore di un'altra.
L'outsider per eccellenza, non può non essere un fumatore.
Jack Burton in “Big
Trouble in Little China”
In “Big Trouble in
Little China” la formula Carpenter/Russell viene ripresentata, ma
questa volta la prospettiva è completamente ribaltata. Jack Burton,
il personaggio impersonato da Kurt Russell, è la dissacrante parodia
di Snake Plissken e di tutti i suoi cloni. L'involucro, Russell, è lo
stesso ma stavolta ci troviamo ad una figura diametralmente opposta:
l'alone di mistero che serpeggia intorno a Snake in Jack Burton
svanisce completamente per una cristallina e inequivocabile
rappresentazione dell'idiozia americana. Il procedimento di
caratterizzazione è il medesimo: non c'è alcuna sovrabbondanza di
informazioni riguardo al personaggio, egli funziona in quanto è
presente. Con Snake è lo spettatore a caricare di aspettativa e a
riempire di contenuto una figura così potenzialmente carismatica,
grazie ad una gestione dei dialoghi impeccabile, mentre con Jack
Burton c'è poco da fantasticare. Egli è il simbolo della povertà
espressiva dell'americano medio: armato di jeans, canotta e panino in
mano, la sua unica aspirazione è ritrovare il suo camion. Jack
Burton parla di sé in terza persona, convinto non solo della sua
sagacia ma del suo stesso essere leggenda. Anche lui è un outsider,
ma in modo diverso: non c'è nessuna scelta razionale, nessuna
volontà di condanna, solo un'incapacità di fondo. Incapacità,
innanzitutto, di stare al passo con gli altri: tutte le scene di
azione iniziano con Burton che si mette fuori gioco da solo – mitra
che gli scappano dalle mani, calcinacci in testa che lo fanno
svenire, corpi di samurai morti che lo bloccano etc. etc. - e
finiscono nel momento esatto in cui ormai è pronto per scatenarsi.
Incapacità, però, anche di rendersi conto della situazione e del
proprio ruolo: ha importanza solo il suo camion, non capisce l'entità
della minaccia e salva la situazione nello stesso modo in cui gioca
d'azzardo. Burton è idiota in senso stretto.
La genialità di
Carpenter risiede non solo nel confezionare un film innovativo,
adrenalinico e divertentissimo ma, soprattutto, nell'usare come punto
di riferimento un personaggio unico ed irripetibile, Jack Burton: la
ridicolizzazione di una delle sue creazioni più riuscite e di tutti
i suoi (impliciti?) epigoni.
È una questione di riflessi. E di rossetto.
Snake Plissken, di nuovo,
in “Escape from L.A.”
Infine bisogna
confrontarsi con il seguito di Escape from New York, ovvero Escape
from L.A.
Dopo un'assenza di più
di un decennio (sia nel film che nella realtà) Snake Plissken torna
sul grande schermo per compiere un'altra, improbabile, fuga. Il film,
inevitabile fallimento sia di critica che di pubblico, è
praticamente un remake del primo episodio, più che un suo sequel. In
che cosa consiste questo remake? Carpenter non fa altro che
riproporre lo schema di Escape From New York invariato, con il
medesimo personaggio in uno scenario modernizzato di quindici anni.
Il film presenta, dunque, non la parodia dell'eroe, ma la messa in
ridicolo dell'apparato narrativo in cui esso si muove: l'action
movie. Nel tempo trascorso il genere ha subito un'evoluzione che lo
ha portato ad implodere: i film e i loro protagonisti sono diventati
la caricatura di loro stessi. Escape From L.A. Coglie in pieno questa
deriva: la colonna sonora pacchiana composta da brani non pensati per
il film (anche i TooL, per quanto intrinsecamente californiani,
stridono una volta sovrapposti alle immagini), effetti speciali non
necessari e, più generalmente, una fotografia improntata alla
spettacolarizzazione. La situazione e le premesse sono le stesse
dell'originale, ma qui non funziona più niente, tutto è votato
all'eccesso e all'esagerazione. Il film gioca in continuazione con le
aspettative dello spettatore e si diverte nel tradirle in
successione: così dove si intravede un'arena e si immagina la
riproduzione dello storico combattimento tra Snake e Slag, tutto ciò
che accade è una pseudo-partita a basket. Gli esempi sono
innumerevoli, ma l'intento è chiaro: il personaggio è invecchiato
ma eterno, il genere (proprio perché spettacolarizzato) ormai morto.
Il finale può essere
tranquillamente letto in chiave cinematografica. Non c'è più
l'anarchica condanna di tutta l'umanità, ma la voglia del regista di
ricominciare da capo annullando una storia ormai satura. Storia di un
modo di fare cinema, volontariamente o meno, iniziata anche da lui.
Si riparte da zero, ma Snake sopravvive. È lui l'ultimo eroe
possibile, l'unico simbolo immortale di una forza distruttrice senza
padroni.
L'azione è così volutamente sopra le righe che Snake trova il tempo per battere il cinque ad un amico surfista, mentre cavalcano uno tsunami. Il tutto con una pallottola piantata nella gamba, ovviamente.
A questo punto è facile capire come è riduttivo considerare Snake Plissken un semplice personaggio. La sua iconocità ha facilmente sfondato le barriere del medium cinema ed è stata capace di riconfigurarsi e suggestionare una quantità elevata di autori e spettatori/fruitori. Ecco due rapidi esempi dell'universalità della sua figura:
Hideo Kojima, nella creazione della stirpe dei protagonisti della sua
acclamatissima e famosissima serie di videogiochi "Metal Gear", rende
chiaramente omaggio a Snake (tanto da utilizzare anche lo stesso nome per Solid Snake)
Big Boss, il soldato leggendario.
Il duo elettronico Justice ha realizzato un videoclip musicale dove, ancora una volta, i tratti distintivi di Snake Plissken appaiono con prepotenza anche se pesantemente decontestualizzati. Il rimando, a maggior ragione, acquista ancora più validità.
Un pilota d'auto divide le sue giornate tra il lavoro di
stuntman e quello di autista dei rapinatori di banche. La
quotidianità si interrompe quando conosce la sua nuova vicina di
casa, Irene: per sistemare il passato del suo compagno i tre
finiscono in una situazione ben più complicata...
Durante tutta la visione di Drive, ci
si sente spaesati. Le pellicole di Nicolas Winding Refn non sembrano
certo pensate per dare sollievo allo spettatore. Per indagare Drive,
è impossibile non parlare dell'altro (primo) vero capolavoro del
regista: Bronson. È interessante notare come entrambi i
film si basino esclusivamente, anche se in modo diametralmente
opposto, sulla potenza dirompente di una figura maschile: fisica e
imponente quella di Tom Hardy, iconica quella di Ryan Gosling. Da
questo punto di partenza i due film prendono due strade completamente
opposte. Bronson si caratterizza come una riscrittura della realtà
partendo da una dimensione interna, surreale. Lo spettatore viene
gettato senza preavviso dentro alla mente schizofrenica di Charles
Bronson, che racconta la sua vita in modo disconesso e onirico. Il
monologo interiore è presentato come uno spettacolo, un'esibizione
davanti ad un pubblico che c'è, ma non si riesce a percepire: il
violento autismo del detenuto più pericoloso d'Inghilterra, viene
genialmente rappresentato in un non-luogo fittizio. La realtà può
presentarsi solo nel luogo massimo dell'assurdità e della fantasia,
il teatro. Ciò che è massimamente violento, impulsivo e caotico,
assume concretezza e validità nel momento stesso che è presentato
dal suo punto di vista proprio: la mente di uno psicopatico. È il
dispositivo cinema, così adoperato da Refn, che ha la pretesa e le
capacità di spiegare pienamente il fondo oscuro del mondo,
contemporaneamente estraniandosene.
Questa dinamica è, in un certo senso,
“accomodante” nei confronti dello spettatore: al senso di
dispersione dettato dalle premesse, si rimedia subito con
l'accettazione di tutto lo svolgimento del film. Drive, non è così
gentile. Infatti, rispetto al suo predecessore, il procedimento è
inverso: è la realtà ad essere il substrato di una narrazione
riducibile ad un impianto fiabesco, quindi volutamente non
realistico.
Lo schema di fondo è certamente quello
della fiaba. Il protagonista è il cavaliere senza nome, l'eroe
solitario senza un passato. Ci sono la donzella in pericolo e i
cattivi, monodimensionali nella loro crudeltà. Con l'inevitabile
confronto tra il bene e il male, il finale non apporta nessun
guadagno, nessuna conclusione (e nessuna furbata alla Inception, per
citare un finale aperto a caso) ma solo la sensazione di aver
assistito ad un racconto senza tempo, senza volto infinitamente
ripetibile nella sua universalità.
La forma, collaudata, non attinge a
nessun contenuto tipico: l'appiglio viene a mancare proprio nel
momento in cui ci si rende conto che l'immaginario usato per dare
vita a questa narrazione fantastica, attinge unicamente a ciò che
immaginario non lo è per niente. La grandezza di Refn risiede
proprio nel riuscire a far compenetrare questi due piani tramite una
consapevolezza delle potenzialità della macchina da presa. Il
cinema, quello di Refn, è in grado di catturare la realtà e
dominarla: tramite un processo di estetizzazione riesce a cogliere il
comune e a ipostatizzarlo, rendendolo fuori da ogni collocazione
possibile. Il film riesce a crearsi una sua personalissima identità
proprio nel presentare elementi familiari ma, paradossalmente, non
individualizzabili in uno spazio e in un tempo precisi. Si pensi al
protagonista: il suo essere non è dato da una storia pregressa, più
o meno raccontata, ma dalla potenza dell'impatto visivo che lo
presenta. La giacca con lo scorpione, lo stuzzicadenti, le mani in
tasca, i guanti indossati alla guida ed un'infinità di altri
dettagli. Così, anche il contesto: tutto, dalla fotografia alla
colonna sonora, contribuisce a rendere una Los Angeles moderna ma
allo stesso tempo esteticamente bloccata negli anni 80. Una città
senza tempo, per un eroe senza tempo.
La narrazione non procede per dialoghi.
Le interazioni sono limitate ad immagini fatte di silenzi, a scene
girate così maestosamente da sembrare veri e propri affreschi.
Microscopici movimenti su uno sfondo immobile, creano tensione ed
aspettativa che spesso non si risolve nell'atto violento che ci si
aspetta: lo spettatore è tenuto sempre in una condizione di nervosismo.
L'abbandono della familiarità si ha
già dal titolo. “Drive” non è un film di macchine. Gli
inseguimenti ci sono, ma il perno non è certo individuabile nelle
scene di guida. Ciò che “guida” realmente il film è la
necessità del compimento fiabesco, che si configura in un impulso
alla violenza da parte del protagonista. Il cambiamento, dettato dal
piombare nella vita del Driver (Ryan Gosling) della figura femminile
di Irene (Carey Mulligan), deve
risolversi in niente e annullare tutto in un trionfo di violenza. Due
sono le scene cardine del film: la scena dell'ascensore e quella al
di fuori della pizzeria. Entrambe girate in modo maestoso, sono veri
e propri momenti di catarsi.
Nella prima, l'eroe capisce
l'impossibilità di caratterizzarsi in modo diverso, concreto. La sua
essenza rimarrà per sempre simbolica, il legame con l'altro è
impossibile. La violenza che salva, necessaria, è anche l'orrore di
sé, il distacco dalla realtà. Irene si allontana, le porte
automatiche si chiudono: la fiaba è costretta nel suo percorso.
Nella
seconda è il film stesso a percepire lo scarto identitario: la
realtà viene abbandonata, il protagonista elevato a supereroe. La
maschera da controfigura, completamente inespressiva, diviene la sua
nuova pelle, la sua essenza. Il mondo dall'altra parte della porta a
vetro, sporco e corrotto, fa si che l'isolamento sia una condanna
necessaria. Gosling diviene la controfigura di sé stesso nel
dispiacere di un destino da compiere: il supereroe è l'annullamento
di ogni pulsione di socialità e di contatto con il reale.
Chiudo con le parole del regista che, non a caso, ha tracciato una forte connessione fra Drive e il suo successivo film, di prossima uscita: "Only God forgives"
"[Only God Forgives] is very much a continuation of that
language"—"[i]t's based on real emotions, but set in a heightened
reality. It's a fairy tale."