Partendo dal titolo, Otto e
mezzo, si pone in un interstizio. Una zona di confine, tra i suoi
precedenti lavori, sei lungometraggi interamente diretti da lui, più tre metà
(Le luci del Varietà, e gli episodi de “L'amore in città” e
“Boccaccio '70) e la genesi di un concetto. Sin dalla nascita si
presenta come un film indeterminato e indefinibile. Un'idea che
germoglia dal nulla ma che poi scompare. Sembra però aver lasciato
una traccia, un residuo nel reale che non riesce ad abbandonare la
mente del regista. Ed ecco quindi il colpo di genio: il film non farà
altro che parlare di se stesso, in quanto nulla esistente, paradosso
negativo apparentemente inesprimibile. Ogni pretesa di appiglio al
reale è definitivamente abbandonata: 8½ si muove in uno spazio
etereo, proprio in quel ½ dove l'idea incontra la vita. 8½ è pura
creatività riflettente, pensiero fluido e inafferrabile raccontato
ancor prima di una sua determinazione.
Cosa
dire di un film che vive di personali intuizioni, pensieri segreti e
realizzazioni inconsce solo in apparenza strutturate in un impianto
diegetico? Probabilmente l'unica cosa che rende giustizia a un'opera
del genere è dire: va visto. Sarebbe inutile e ridondante sprecare
ancora una volta parole sulla bravura tecnica di Fellini,
l'incredibile composizione dell'immagine, l'uso della mdp,
l'importanza della musica. Ciò che veramente lascia esterrefatti è
il continuo susseguirsi di espedienti tecnici e formali che spiazzano
in continuazione lo spettatore, ma non cadono mai nella forzatura, la
visione scorre via sempre in una coerenza di fondo (che potrebbe
essere: l'annullamento di qualsiasi grammatica sperimentata fino ad
ora) mai ravvisata in precedenza. Si pensi solo all'uso della finta
soggettiva durante il discorso del critico cinematografico all'inizio
del film: Jean Rougeul parla rivolgendosi in camera, presupponendo la
coincidenza della mdp con lo sguardo del protagonista. Ancora qualche
passo, altri sguardi, camera e attore fianco a fianco e poi,
improvvisamente, entra in campo la figura di Mastroianni, personaggio
a cui è rivolto il discorso di Rougeul. Nei primi cinque minuti di
film, in modo esemplare, viene quindi proposta e subito negata allo
spettatore l'identificazione con il regista. Il film, vive in questa
continua allusione e negazione delle regole del gioco.
Come si poteva pensare di
spingersi oltre la “Dolce Vita”? Quell'incredibile esplosione di
senso che catturava lo spettatore e lo disorientava in continuazione,
sovraccaricandolo di stimoli estetici, sembra essere addirittura
superata in 8½. La prospettiva però è radicalmente diversa: non
c'è veramente più nessuna direzionalità, nessuna frammentazione,
nessuna narrativa. Ne “La Dolce Vita”, seppur con la massima
impenetrabilità, la storia proponeva un enigma, ovvero una sincera
offerta allo spettatore di essere sviscerata, colta, trasfigurata e
riconosciuta, mentre 8½, apice massimo della carriera di Fellini,
annulla questa pretesa. Spazio e tempo non vengono decostruiti, non
sono proprio presi in considerazione. È il surrealismo massimo,
perché propone una realtà all'infuori di essa, è un viaggio
immobile nello spazio non delimitabile della mente del regista: non
si può provare interesse verso un'opera del genere, ci si può
fermare soltanto alla fascinazione.
La genialità dell'autore risiede non solo nell'essere riuscito a
fondere perfettamente realtà, finzione e realtà della finzione
(Fellini crea un film su un suo alter ego intento a creare un film
sul suo alter ego), in un continuo gioco di rimandi e riferimenti
(concetto mimetico dell'arte, mimesis,
portato all'estremo) ma anche nell'integrare perfettamente lo
spettatore in questo processo cognitivo. Chi guarda è parte
inscindibile della rappresentazione, e il movimento (l'unico reale
di tutto il film, probabilmente) circolare
del finale che sancisce la conclusione del film ma la rinascita della
creatività, ingloba non solo tutti i personaggi incluso il regista,
ma anche la realtà nella sua interezza al di fuori dello schermo. Il concetto di
fuori campo disintegra la cornice dell'inquadratura ed irrompe
nell'esperienza di chi è presente alla visione, legandosi
indissolubilmente. Fusione di orizzonti, esperienza di verità.
Cos'è
la creatività? 8½ è un viaggio onirico, trascendentale e
surrealista nella mente di un regista visionario ma incapace di
considerarsi artista, fortemente legato alla consapevolezza di
essere, prima di tutto, un uomo. Ancora una volta il mondo di Fellini (le sue opere,
la loro ricezione, il suo rapporto con il pubblico ma anche la sua
infanzia, le sue paure, le sue manie, le sue relazioni etc. etc.)
irrompe nella realtà, quella condivisa, lo spazio
altro, ma non lascia
nessuna possibilità di allontanamento: lo sguardo si allarga
all'infinito e si richiude in sé, ingloba e risemantizza l'estetica
reale sotto la sua volontà. 8½ assume quindi quella funzione
mediatrice tra universale processo creativo ed esperienza singola e
personale che crea l'unica possibilità di accesso alla pellicola: il
film stesso. Quello di Fellini, è un atto demiurgico.
Negli ultimi giorni ho avuto pochissimo tempo e soltanto oggi sono tornato a leggere le tue brillanti critiche. Credo di essermi perso molto, ma mi impegno sin d'ora a recuperare.
RispondiEliminaUna volta di più, con questo illuminante lavoro su 8½, hai enfatizzato l'essenza dell'opera felliniana fornendo un'analisi attenta, precisa, mirabile.
Grande lavoro!
Grazie zio, mi fa piacere che trovi il tempo di leggere tutto. Purtroppo mi sono reso conto che sono così preso da questi film, che nello scrivere ci metto troppo entusiasmo, e pubblico senza rileggere attentamente. Quindi sei anche troppo buono, dopo il tuo commento ho riletto tutto e mi sono sentito in dovere di correggere punteggiatura e ripetizioni!
EliminaCiao, a presto.