"Amarcord" è il film che
Fellini ha sempre cercato di fare. Dopo anni di esperienza, pellicole
tra le più variegate, il regista sembra tornare alle sue origini.
Sceglie infatti di raccontare, proprio come ne “I Vitelloni”,
un'Italia provinciale ormai sparita, il suo paese natale ancor prima
di essere adottato da Roma, insomma, sceglie la strada del ricordo.
L'elemento autobiografico però si arricchisce dell'esperienza
formale acquisita con i suoi precedenti sforzi, in particolare i
docufiction “Block-Notes di un Regista” “I Clowns” e “Roma”,
e il film non risulta una semplice reiterazione di temi già
trattati, ma anzi, presenta un'identità ben definita.
“Amarcord”,
proprio perché sinceramente felliniano, presenta tutti gli elementi
cari al regista. Primo tra tutti, la narrativa spezzettata in episodi
sussistenti tra di loro, che condividono solo il contesto e
personaggi ma non un nesso causale. Sebbene prevalentemente una
commedia, il film, e in questo ricorda parecchio “Roma”, non è
ascrivibile a nessun genere. La storia è piegata alla potenza
espressiva della ricerca estetica: molti episodi, infatti, culminano
nello sguardo meravigliato dei personaggi (ad esempio l'episodio del
pavone. Ma anche quello del “Rex” indica proprio il primato
narrativo della vista sull'azione). Reale e onirico, come sempre,
trovano continuità nella messa in scena felliniana, che legittima
qualsiasi deviazione dal credibile tramite la consapevolezza della
potenza trascendentale dell'immagine. Inoltre, il tutto trova un
ulteriore rafforzamento nell'impianto concettuale che permea
l'essenza del film. È il ricordo a giustificare l'inverosimile, è
l'oblio del tempo a rendere opache le zone di confine tra sogno e
vita. “Amarcord” è la fusione, sempre più perfetta, che Fellini
va cercando dal suo primo film.
Amarcord è originale e
originario. L'elemento creativo risiede già nel titolo. Non è la
prima volta che il linguaggio cinematografico di Fellini viene
assimilato dal linguaggio comune (ad esempio il personaggio
“Paparazzo” de “La Dolce Vita” diviene nome comune di una
categoria) ed è così che la crasi dialettale Amarcord (dal
romagnolo “ a m'arcord”, ovvero “io mi ricordo”), diviene un
neologismo della lingua italiana, indicante una rievocazione in
chiave nostalgica. Ecco, per
capire Amarcord, e il cinema tutto di Fellini, è fondamentale
fermarsi su questa qualità poietica
extra-filmica delle sue pellicole. La grandezza del regista risiede
nell'aver saputo creare, attraverso il mezzo cinema, un universale
biografico: in pochi, forse
nessuno, hanno saputo parlare così intelligentemente di sé, così
genialmente, da divenire interpreti non solo del proprio tempo, ma di
un popolo intero.
Va
notato come, significativamente, Fellini scelga di non scendere in
prima persona nel racconto. Non solo tramite la scelta di un alter
ego (Moraldo/Titta) ma proprio nella mancata riconoscibilità della
sua persona come narratore. Anzi, lo stravagante narratore che
compare ogni tanto tra un episodio e l'altro, viene continuamente
ridicolizzato e ammutolito dal film. Il punto di riferimento
felliniano, la necessità di dichiararsi guida dell'opera non è più
necessaria. “Amarcord” vive al di là della soggettività, è una
sorta di sogno condiviso dove ogni parte ha pari dignità. L'elemento
autobiografico si annulla e si espande nel dipinto di una nazione.
Fellini, però, non rinuncia al suo linguaggio, alla sua poetica. È
il pubblico che si riconosce nel suo surrealismo, non c'è nulla di
accomodante nei suoi film. Amarcord segna la coincidenza totale tra
Fellini e lo spettatore, un racconto privato pensato per se stesso,
ma sentito come proprio da tutti. Amarcord è memoria universale,
ricordo collettivo. Indimenticabile.
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