Per Fellini, gli anni '80, terza
decade dietro la macchina da presa, si erano aperti con due tentativi
falliti di rinnovamento forzato del proprio cinema. Quello che
potremmo definire il filone “politico-sociale” giunge al suo
massimo ne “E la Nave Va”, dove il regista riesce nell'impresa di
ricongiungere sul grande schermo le sue immagini e il mondo che lo
circonda. Superando l'ultimo, e più difficile ostacolo espressivo, è
nello spazio delimitato della “Gloria N.” che Fellini tira le
somme di tutta la sua cinematografia. Colpisce significativamente la
mancata identificazione con il narratore, figura sbeffeggiata sin da
“Amarcord”, ma sempre presente. È comunque il cinema a
riflettere su se stesso ma nel farlo, impone l'obbligo di trattarsi
da estraneo. Fellini sceglie di non comparire (anche nella
meta-apparizione finale), non tanto per mantenersi esterno al
racconto, ma proprio per non porsi, con la sua concretezza, separato
dalla sua creatura. Il travestimento, l'alter-ego maschera/clown, è
la condizione necessaria per poter affrontare la propria interiorità.
“E la Nave Va” è,
allo stesso tempo, un biglietto da visita e una lettera d'addio.
Fellini, come mai prima, riesce ad unire pensiero e ricordo, “8½ ”
ed “Amarcord”, omaggiando in modo tenerissimo il cinema e la
vita. È la scena iniziale a dircelo: è il cinema ad avere vita
propria, qualsiasi sia l'epoca e indipendentemente dalla tecnica, ci
sarà sempre un mezzo, una nave pronta al racconto. Il film è la
nave, lo spazio della messa in scena, l'unico luogo possibile dove
può risiedere l'arte. Prima di tutto, però, la scelta della musica:
forse la decisione che più commuove, è l'aver voluto raccontare il
proprio cinema tramite l'omaggio a Nino Rota, compagno di viaggio di
una carriera (vita) intera. Di fronte al funerale della musa
scomparsa, è il film stesso a volersi musica. È solo con essa che
trova la parola, unicamente in essa trova il suo compimento. L'ombra
della perdita presente in ogni nota, è il sincero commiato di
Fellini a l'unica altra persona che riuscì a rendere tale la magia
di ogni suo film.
Quello che rende “E la
Nave Va” la pellicola di Fellini più completa ed unitario dai
tempi de “8½ ”, è il modo in cui riesce a porsi dialetticamente
con il mondo e la Storia. Lontano dalle crisi sociali, il film evita
qualsiasi riferimento diretto alla contemporaneità (niente sindacati
e femminismo) collocandosi temporalmente agli albori del 900. Ma in
questo maniera non avviene un rifiuto della realtà, anzi rappresenta
proprio il distacco necessario ricercato a lungo. Fellini arriva ad
intuire che, affinché il cinema possa parlare del proprio tempo
onestamente, non può farlo in modo volontario. La vita, nella
riflessione senza tempo dell'arte, è solo un sotto-testo, un
imprevisto non voluto. In questo “E la Nave Va” ricorda
tantissimo il Jean Renoir de “La Regola del Gioco” o volendo il
Luis Buñuel de
“Quell'Oscuro Oggetto del Desiderio”. La riflessione lucida de “
La città delle Donne” è un vicolo cieco senza uscita. L'unica
possibilità di dialogo tra arte e sguardo politico è l'annullamento
della prima nella contaminazione della seconda.
Nel drammatico scontro
tra il cinema e la realtà, Fellini si dichiara sostanzialmente
sconfitto. Un film non potrà mai essere testimone della Storia
(l'incapacità di determinare il motivo dell'attacco della nave
austro-ungarica, tramite la decisione di mostrare la stessa scena più
volte, ogni volta leggermente modificata, è una soluzione già
utilizzata da Buñuel
ne “L'Angelo Sterminatore”). È in questa incapacità, però,
che l'arte decide di morire in piedi. Fellini non verrà mai
fagocitato dalla realtà, la sua opera si pone al di là di ogni narrazione. La consapevolezza della finzione, l'apparire del set, è la
rivendicazione di autonomia massima. Fuori dal tempo, il cinema potrà raccontare di nuovo la sua storia.
E la nave, per sempre, va.
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