lunedì 3 febbraio 2014

La Dolce Vita [Fellini Checklist 8/24]

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Fellini con “La Dolce Vita” crea un vero e proprio spartiacque con la cinematografia italiana che lo precede. La familiarità stilistica con i precedenti movimenti riemerge solo ad un livello di citazionismo: il neorealismo è morto, stavolta non è un'idea di chi scrive ma è lo stesso film ad affermarlo. Il terreno su cui si muove l'autore è, dunque, costituito da quanto sperimentato nei suoi sforzi precedenti. L'universo felliniano è abbastanza grande da essere sussistente: il regista non ha più bisogno del cinema italiano per esprimersi, la tradizione viene assimilata ed interrotta.






Primo debito nei confronti di se stesso, l'impianto narrativo è uguale a quello de “Le Notti di Cabiria”. Estremizzata la formula, però, gli episodi ragionano molto più a compartimenti stagni. Se Cabiria era indiscussa protagonista, ed ogni episodio seguiva una sorta di crescita del personaggio (fino ad arrivare all'accettazione finale della vita) gli avvenimenti che circondano la vita di Marcello si pongono in modo ben più problematico: il film sacrifica la centralità del suo “eroe”, Marcello è spettatore tanto quanto lo siamo noi. La dolce vita è il contesto grottesco, deviato e corrotto che consuma e degrada chiunque giochi al suo interno. Una società arrivata al punto del collasso, perfettamente riflessa in questa narrativa che non comunica tra le sue parti, ma che allo stesso tempo rivendica una sua unità. È come se Fellini, seguendo un principio di addizione ad ogni suo nuovo film, avesse fatto esplodere di senso e contenuto questa sua poetica, così carica ormai da essere indefinita, infinitamente frastagliata e impenetrabile: l'arte si presenta dunque attraverso la sua verità, ovvero la pura negatività.







La Dolce Vita È arte in senso stretto, perché inesauribile: si riconfigura all'infinito ad ogni sua visione. Si potrebbe scrivere intere pagine sull'interpretazione di ogni singola scena (il finale con la manta morta da tre giorni e l'incomunicabilità con la bambina, pura e innocente) ma sarebbe comunque un approccio parziale, che mancherebbe di centrare il bersaglio appieno. Comprendere opere del genere, infatti, è impossibile. Il film fu criticato per essere il più grande inno al cattolicesimo mai prodotto, ma allo stesso tempo anche per essere l'opera di un ateo senza speranza. Un film che “metteva l'Italia in mano ai bolscevichi”, ma anche un'acuta critica sociale. Tutti questi punti di vista non sono sbagliati, ma sono lontani dall'essere giusti.
Interessante notare come non solo ritornino i temi cari al regista, con una ormai esplicita fascinazione per la cultura e l'estetica orientale, ma come venga raggiunta la mediazione (quasi) totale tra arte e realtà: lo spettacolo è penetrato completamente nella vita, siamo prodotti alterati di un continuo osservarsi. È la notizia, lo scoop, ad esigere un sempre continuo flusso di novità, è solo con l'incessante flash delle macchine fotografiche che si cristallizza il reale. Più vera della vita e della morte, l'estensione tecnica umana sovrasta qualsiasi piano. Prendiamo l'enigmatica sequenza dell'omicidio: il folle gesto, le riflessioni sull'arte, le parole e lo sconforto, tutto si annulla nell'ascolto della registrazione che genialmente presenta un dialogo (visto nel momento della sua registrazione precedentemente nel film!) seguito subito da un assordante rumore di tuono: pura riflessione metafisica.





Una consapevolezza tecnica che trascende il genere e gli stili: la frammentarietà narrativa si riflette in una varietà registica che spiazza. Fellini ingloba tutte le sue precedenti esperienze, e adatta la mdp ad una vastissima gamma di situazioni: dagli echi Rosselliniani de “Viaggio in Italia”, di cui la scena del miracolo ricorda il finale del film, al surrealismo più ipostatizzante del bagno nella fontana di Trevi della Ekberg, Fellini si muove camaleonticamente, proponendo un sovra dosaggio sensoriale e stilistico, che va a doppiare l'ampiezza di quello contenutistico: è il film dell'eccesso.
La musica, ancora una volta scritta da Nino Rota, ricopre un ruolo diegetico di primo piano. Meravigliosamente concepita, presenta anch'essa una varietà grandiosa. Dalla presenza di Celentano, al cameo di Nico (famosa per il suo disco con i Velvet Underground), il film conferma ancora una volta la sua incredibile sfaccettatura pop: uno sconfinato calderone di citazioni e rimandi culturali, tutto filtrato attraverso l'inconfondibile e a tratti (in termini di conoscenza) inarrivabile occhio di Fellini. 






Più di una semplice fotografia distorta dell'Italia contemporanea, la Dolce Vita è la messa in scena di un'epoca intera, di un secolo allo sbaraglio. Film epocale in senso stretto, è la condensazione della problematicità estetica, sociale e politica che caratterizza l'uomo dal suo interno nel XX secolo. È uno specchio in mille pezzi, in cui tutti si riflettono, ma nessuno si riconosce.



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