Fellini con “La Dolce
Vita” crea un vero e proprio spartiacque con la cinematografia
italiana che lo precede. La familiarità stilistica con i precedenti
movimenti riemerge solo ad un livello di citazionismo: il
neorealismo è morto, stavolta non è un'idea di chi scrive ma è lo
stesso film ad affermarlo. Il terreno su cui si muove l'autore è,
dunque, costituito da quanto sperimentato nei suoi sforzi precedenti.
L'universo felliniano è abbastanza grande da essere sussistente: il
regista non ha più bisogno del cinema italiano per esprimersi, la
tradizione viene assimilata ed interrotta.
Primo debito nei
confronti di se stesso, l'impianto narrativo è uguale a quello de
“Le Notti di Cabiria”. Estremizzata la formula, però, gli
episodi ragionano molto più a compartimenti stagni. Se Cabiria era
indiscussa protagonista, ed ogni episodio seguiva una sorta di
crescita del personaggio (fino ad arrivare all'accettazione finale
della vita) gli avvenimenti che circondano la vita di Marcello si
pongono in modo ben più problematico: il film sacrifica la
centralità del suo “eroe”, Marcello è spettatore tanto quanto
lo siamo noi. La dolce vita è il contesto grottesco, deviato e
corrotto che consuma e degrada chiunque giochi
al suo interno. Una società arrivata al punto del collasso,
perfettamente riflessa in questa narrativa che non comunica tra le
sue parti, ma che allo stesso tempo rivendica una sua unità. È
come se Fellini, seguendo un principio di addizione ad ogni suo nuovo
film, avesse fatto esplodere di senso e contenuto questa sua poetica,
così carica ormai da essere indefinita, infinitamente frastagliata e
impenetrabile: l'arte si presenta dunque attraverso la sua verità,
ovvero la pura negatività.
La
Dolce Vita È arte in senso stretto, perché inesauribile: si
riconfigura all'infinito ad ogni sua visione. Si potrebbe scrivere
intere pagine sull'interpretazione di ogni singola scena (il finale
con la manta morta da tre giorni
e l'incomunicabilità con la bambina, pura e innocente) ma sarebbe
comunque un approccio parziale, che mancherebbe di centrare il
bersaglio appieno. Comprendere
opere del genere, infatti, è impossibile. Il film fu criticato per
essere il più grande inno al cattolicesimo mai prodotto, ma allo
stesso tempo anche per essere l'opera di un ateo senza speranza. Un
film che “metteva l'Italia in mano ai bolscevichi”, ma anche
un'acuta critica sociale. Tutti questi punti di vista non sono
sbagliati, ma sono lontani dall'essere giusti.
Interessante notare come
non solo ritornino i temi cari al regista, con una ormai esplicita
fascinazione per la cultura e l'estetica orientale, ma come venga
raggiunta la mediazione (quasi) totale tra arte e realtà: lo
spettacolo è penetrato completamente nella vita, siamo prodotti
alterati di un continuo osservarsi. È la notizia, lo scoop, ad
esigere un sempre continuo flusso di novità, è solo con
l'incessante flash delle macchine fotografiche che si cristallizza il
reale. Più vera della vita e della morte, l'estensione tecnica umana
sovrasta qualsiasi piano. Prendiamo l'enigmatica sequenza
dell'omicidio: il folle gesto, le riflessioni sull'arte, le parole e
lo sconforto, tutto si annulla nell'ascolto della registrazione che
genialmente presenta un dialogo (visto nel momento della sua
registrazione precedentemente nel film!) seguito subito da un
assordante rumore di tuono: pura riflessione metafisica.
Una
consapevolezza tecnica che trascende il genere e gli stili: la
frammentarietà narrativa si riflette in una varietà registica che
spiazza. Fellini ingloba tutte le sue precedenti esperienze, e adatta
la mdp ad una vastissima gamma di situazioni: dagli echi
Rosselliniani de “Viaggio in Italia”, di cui la scena del
miracolo ricorda il finale del film, al surrealismo più
ipostatizzante del bagno nella fontana di Trevi della Ekberg, Fellini
si muove camaleonticamente, proponendo un sovra dosaggio sensoriale e
stilistico, che va a doppiare l'ampiezza di quello contenutistico: è
il film dell'eccesso.
La
musica, ancora una volta scritta da Nino Rota, ricopre un ruolo
diegetico di primo piano. Meravigliosamente concepita, presenta
anch'essa una varietà grandiosa. Dalla presenza di Celentano, al
cameo di Nico (famosa per il suo disco con i Velvet Underground), il
film conferma ancora una volta la sua incredibile sfaccettatura pop:
uno sconfinato calderone di citazioni e rimandi culturali, tutto
filtrato attraverso l'inconfondibile e a tratti (in termini di
conoscenza) inarrivabile occhio di Fellini.
Più
di una semplice fotografia distorta dell'Italia contemporanea, la
Dolce Vita è la messa in scena di un'epoca intera, di un secolo allo
sbaraglio. Film epocale in senso stretto, è la condensazione della
problematicità estetica, sociale e politica che caratterizza l'uomo
dal suo interno nel XX secolo. È uno specchio in mille pezzi, in
cui tutti si riflettono, ma nessuno si riconosce.
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