[link alla CHECKLIST]
Sebbene “La Città
delle Donne” segni il ritorno di Fellini al grande schermo dopo
l'ennesima esperienza televisiva, il film presenta le stesse
problematiche del docufiction “Prova d'Orchestra”. Lo scontro
frontale con la realtà e la sua parodizzazione, manifesta pretesa
politica ormai presente nel cinema di Fellini, è un elemento che il
regista non riesce a domare in pieno. Fellini cerca di far irrompere
il presente nel suo mondo, di attualizzare la sua visione per
strapparla dalla riflessione astratta. “La Città delle Donne” è
quindi un tentativo di ripresa dell'universo a sé stante de “La
Dolce Vita” e “8½ ”, dove l'autore cerca di concretizzare e
modernizzare un'esperienza sostanzialmente unica e irripetibile. Il
riferimento, vero e proprio ritorno, lo si intuisce da subito:
Mastroianni protagonista, alter-ego prediletto di Fellini, incarna
ancora una volta un personaggio in balia degli eventi, o ancora
meglio, della sua fantasia. Snaporaz, uomo vittima dei suoi stessi
sogni e Guido Anselmi, regista in crisi, sono solo differenti
incarnazioni della stessa figura archetipica tanto cara a Fellini. Il
regista nelle due pellicole, non fa altro che sviscerare a fondo due
configurazioni di un unico io.
In cosa differiscono
dunque i due film?
Innanzitutto “La Città
delle Donne” è un'indagine lucida e razionale sulla figura
femminile nella società moderna, e tradisce la sua superficie di
racconto onirico. L'elemento surreale, base fondante in “8½ ”,
qui risulta essere soltanto un pretesto narrativo: l'esplorarsi
lascia il posto ad una ricerca ambiziosa. In quanto tale,
esige e pretende una soluzione. Questo il limite insormontabile del
film: i capolavori di Fellini, tra i quali “8½ ” è la vetta
massima, si ponevano in un rapporto di reciproca influenza con il
proprio autore, anzi lo sovrastavano. Era lo stesso Fellini a
lasciarsi trasportare dall'idea, ad inseguire un sogno meschino,
ormai svanito ed irraggiungibile. L'universale fascino che riusciva a
suscitare, derivava si da una profonda analisi introspettiva, ma la
volontà del regista si annullava completamente in essa. Solo così
si generava una sincera riflessione sull'arte e sul mondo, senza
limiti e confini. Più di un quarto di secolo dopo, Fellini cerca di
replicare la magia, ma è una strada che non può essere battuta
razionalmente e il risultato è fallimentare, a partire
dall'intenzione.
Ciò che rimane è
l'immancabile bellezza del cinema felliniano. Un'identità estetica
inesprimibile a parole, che vive di immagine pura, unita a intuizioni
mai ridondanti. Però questa volta manca il collante che riusciva ad
unificare la potenza della visione in un unico atto di fruizione. La
sensazione che trasmette “La Città delle Donne” è quella di un
continuo esercizio di stile che non riesce a connettere le sue
immagini in un tessuto organico. È proprio con questa assenza che ci
si rende conto quanto determinante fosse la storia nella fruizione
dello sguardo di Fellini. La narrativa scollegata ed episodica de “La
Dolce Vita”, l'incedere rapsodico di “8½ ”, l'eccessivo
barocchismo de “Giulietta degli Spiriti”, il pretesto
storico-letterario de “Satyricon” e “Casanova” (vere e
proprie reinterpretazioni tanto da necessitare il nome del regista
nel titolo) divengono elementi importanti tanto quanto la
forma/immagine nel ripensamento della cinematografia del regista.
Senza un apparato narrativo stratificante, la visione si perde nel
volgare e nel ridicolo. Il confine tra il sensato e il pretestuoso
viene tristemente abbattuto: “La Città delle Donne” si
auto-demolisce nel suo desiderio programmatico di voler colpire lo
spettatore, nel voler disturbare il suo sguardo. Fellini, per la
prima volta orfano di Nino Rota, fallisce nell'ingenuo tentativo di
cercare l'ispirazione ripercorrendo i suoi passi. “La strada” è
un'altra.
Nessun commento:
Posta un commento