lunedì 23 dicembre 2013

Appunti sul Cinema [3]: Il montaggio nel cinema hollywoodiano classico



Il cinema, in quanto linguaggio, crea la sua grammatica spontaneamente. Le regole che vengono ad imporsi non sono decise a tavolino dai registi che creano un sistema dal nulla, imponendo delle scelte arbitrarie. Il linguaggio che si va formando è tarato sul pubblico, è la sua ricettività a rendere possibile la formulazione di un codice. La complessità narrativa raggiunta dai film americani a partire da metà degli anni '10, impone una maggiore chiarezza nell'esposizione della storia, il dialogo tra pubblico e immagini ha bisogno di nuovi mezzi espressivi. Le regole formali che diventeranno la base del cinema hollywoodiano classico sono il risultato di venti anni di sperimentazione su scala internazionale. L'età classica di Hollywood è dunque la summa di quanto immaginato fino a quel momento, il più ampio dizionario grammaticale del neonato linguaggio filmico.

La continuità narrativa impone che sia chiara la relazione che intercorre tra le varie inquadrature. I registi ravvisarono da subito l'importanza diegetica del montaggio nella costruzione del film. Con il cinema classico hollywoodiano il montaggio si cristallizzò in tre forme principali: il montaggio alternato, il montaggio analitico e il montaggio contiguo.

Montaggio alternato


Con montaggio alternato si intende la successione di inquadrature che mostrano azioni che avvengono in luoghi diversi. I registi dell'epoca si resero conto che alternando in questo modo le scene, il pubblico percepiva come svolti in contemporanea i due momenti separati. L'autore che per primo esplorò le potenzialità di questo tipo di montaggio fu D. W. Griffith, vero e proprio padre del cinema americano classico. Inoltre fu uno dei primi utilizzatori del montaggio parallelo, una variante del montaggio alternato: mentre in quest'ultimo le due azioni confluiscono in una terza, in quello parallelo le due scene non arrivano mai a influenzarsi vicendevolmente.



"Birth of a Nation" di Griffith. Tramite il montaggio alternato il regista ci mostra tre azioni che si svolgono in contemporanea: delle persone sotto assedio, chi cerca di irrompere, e la carica dei "buoni" che si precipitano al salvataggio.


Montaggio analitico


Il montaggio analitico consiste nella suddivisione di uno stesso spazio in più inquadrature. Fornita un'inquadratura totale dello spazio con un campo lungo, lo stacco di montaggio può passare ad un'inquadratura più ravvicinata che mette in primo piano un dettaglio che altrimenti sarebbe passato inosservato. Il montaggio analitico è dunque uno strumento potentissimo per focalizzare l'attenzione dello spettatore.


"Intolerance" sempre di D. W. Griffith ed un esempio di montaggio analitico, con focalizzazione tramite inquadratura ravvicinata di un particolare della scena.



Montaggio contiguo


Il montaggio contiguo nasce dall'esigenza di creare una continuità spaziale tra le inquadrature. Il genere che impose la riflessione su questo problema fu quello dell'inseguimento. Dal 1910 in poi i registi capirono che il modo migliore per creare questa continuità è mantenere costante la direzione del movimento. Così un elemento che percorre orizzontalmente un'inquadratura da sinistra verso destra, nell'inquadratura successiva si ritroverà collocato alla sinistra del quadro e sarà diretto verso destra.
Nel video, una scena di Ong-Bak di Prachya Pinkaew. Notare come tutto l'inseguimento percorra una linea ideale che da la sensazione di continuità tra un'inquadratura all'altra (nel caso, una diagonale che va da in alto a destra a in basso a sinistra). L'esempio, proprio perché recente, dimostra come la codificazione avvenuta cento anni fa sia tutt'oggi valida e non una "lingua morta":





Gli studi sulla continuità spaziale proseguirono prendendo come riferimento il punto di vista dei personaggi. Veniva quindi mostrato prima un personaggio con lo sguardo rivolto fuori campo (cioè fuori dall'inquadratura) e dopo lo stacco veniva mostrato ciò che esso guardava. Se la seconda inquadratura non assume come punto di vista quello del personaggio “osservante” allora uno stacco di questo tipo viene definito “raccordo di sguardo”. Logicamente se il personaggio guarda fuori campo verso destra, nell'inquadratura successiva che mostra l' “osservato” esso sarà fuori campo a sinistra, nel rispetto di un'ideale continuità spaziale tra le immagini.


"Il Gabinetto del Dottor Caligari" di Robert Weine. Esempio di raccordo in soggettiva (leggiamo il diario, fuori campo nella prima inquadratura) dal punto di vista del protagonista.



Ulteriori evoluzioni del raccordo di sguardo, ovvero la regola del campo/controcampo e la regola dei 180°, verranno trattate in seguito in un altro post.

mercoledì 18 dicembre 2013

Appunti sul Cinema [2]: Bazin e il montaggio proibito

Prima di approfondire ulteriormente il pensiero di Ėjzenštejn, vorrei soffermarmi sulla teoria del montaggio proibito proposta da André Bazin nel manuale “Che cos'è il cinema” in particolare nel capitolo nominato “Montaggio Proibito”.

La riflessione di Bazin parte dalla mesa a confronto di due film per bambini. Il primo è “Une fée pas comme les autres” di Jean Tourane e il secondo “Le Ballon Rouge di Albert Lamorisse. Tramite l'analisi di queste due pellicole vuole dimostrare come l'intervento del montaggio non sia sempre necessario, ma anzi, rischi di compromettere la narrativa filmica.




Nel film di Tourane, il montaggio è artificio necessario alla narrazione. L'obiettivo è quello di antropomorfizzare gli animali inquadrati e i loro comportamenti, al fine di renderli attori protagonisti della storia raccontata per immagini. Secondo Bazin il montaggio è il perno ontologico del film tanto che “l'azione apparente e il senso che le si presta non sono praticamente mai preesistiti al film, nemmeno sotto la forma parcellare dei frammenti di scena che costituiscono tradizionalmente le inquadrature”. Così come con “l'effetto Kulešov, è il montaggio (o il pubblico attraverso esso?) a costruire un senso narrativo. Inoltre è importante che non accada veramente il gesto in sé, ma sia creato solo a posteriori dalla sequenza di inquadrature. Se i cani fossero stati ammaestrati in tal modo da saper eseguire determinate prodezze tipiche delle azioni umane, l'attenzione si sarebbe spostata dalla storia alla straordinarietà del gesto in sé.



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Nel film di Lamorisse il montaggio assume un ruolo ben diverso. Scopo del film è zoomorfizzare un palloncino affinché segua il suo “padrone” come un cane. La dose di finzione è la stessa, ma lo scarto per Bazin è netto: questo film non deve nulla al montaggio. L'illusione deve trovare conferma nella realtà oltre che nel cinema. Per il critico “il fatto è che appunto, al montaggio, il palloncino magico esisterebbe solo sullo schermo, mentre quello di Lamorisse ci rimanda alla realtà.
La specificità del cinema si palesa non più nel montaggio, che anzi appiattirebbe la narrazione ad un qualsiasi altro tipo di testo, ma nella validità dell'immagine in sé. Le parole di Bazin sono molto chiare:

Eppure la stessa storia, per quanto ben filmata, potrebbe avere sullo schermo non più realtà del libro, e questo nell'ipotesi in cui Lamorisse avesse preso il partito di ricorrere alle illusioni del montaggio (o eventualmente del trasparente). Il film diventerebbe allora una narrazione attraverso l'immagine (così come il racconto lo sarebbe attraverso la parola) invece di essere ciò che è, cioè l'immagine di un racconto o anche, se si vuole, un documentario immaginario

Ci affacciamo dunque sul tema centrale della riflessione di Bazin: l'immaginazione del cinema ha necessariamente bisogno della sua dose di realtà. La finzione vive nel suo rimando al reale.

Ciò che importa è solo che si possa dire allo stesso tempo, che la materia prima del film è autentica e che, tuttavia, << è cinema >>. Allora lo schermo riproduce il flusso e il riflusso della nostra immaginazione che si nutre della realtà alla quale progetta di sostituirsi, la favola nasce dall'esperienza che essa trascende.


Crin-Blanc è un altro cortometraggio di Lamorisse preso in esame da Bazin in queste pagine.


La situazione è paradossale: il cinema per essere tale deve essere reale, ma allo stesso tempo consapevole di essere finzione. Il trucco sarà pure invisibile, ma sarà pur sempre cinema. Perché tra i tanti “escamotage” a disposizione del cinema, solo il montaggio rischia di invalidare il rimando a ciò che deve trascendere e mantenere allo stesso tempo? Punto fondamentale è che per Bazin la realtà deve essere preservata nel “semplice rispetto fotografico dell'unità dello spazio”. In questo il critico si dimostra parecchio radicale: “per esempio, non è consentito al regista di aggirare col campo-controcampo la difficoltà di far vedere due aspetti simultanei di un'azione”.
Addirittura arriva ad enunciare una legge estetica “Quando l'essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell'azione, il montaggio è proibito”.
Bazin, però, si preoccupa subito di smussare l'intransigenza di questa legge, proponendo la sua applicazione in base a una distinzione dei generi e dello stile. Il montaggio è dunque utilizzabile, ma non nei casi in cui la sua applicazione “trasformerebbe la realtà nella sua semplice rappresentazione immaginaria (attraverso la rottura dell'unità spaziale dell'avvenimento ndr.)”

Se non tanto nella sua applicazione, la teoria di Bazin è sicuramente affascinante e degna di considerazione. Sicuramente può, e deve essere ripensata, alla luce del cinema moderno. Citando di nuovo Bazin:

Se il cinema comico ha trionfato prima di Griffith e del montaggio è perché la maggior parte delle gag dipendevano da una comicità dello spazio, dalla relazione dell'uomo con gli oggetti e col mondo esterno. Chaplin, nel Circo, è effettivamente nella gabbia del leone ed entrambi sono chiusi insieme nella cornice dello schermo.




Al giorno d'oggi, con la sparizione del set e degli attori stessi (si pensi al mediocre, ma pertinente in questo caso, “Avatar o all'ottimo “Gravity) si può ancora parlare di unità spaziale dell'avvenimento? La corniche dello schermo può essere ancora in grado di racchiudere dentro di sé lo spazio dell'immaginario reale?

Ripensare il Classico

Appunti sul cinema [1]: Il Montaggio

Cimentandomi nella riorganizzazione di pensieri di quella che ormai è la mia materia di studio principale, ritorno su questo blog proponendo qualche riflessione sparsa.

Partiamo dall'assunto:

Il cinema è linguaggio


In quanto tale, per poter essere comunicato ha bisogno di una grammatica, di regole e convenzioni che lo rendano condivisibile. Il cinema, ovviamente, non si muove sul terreno della parola, ma su quello dell'immagine. Il fatto che l'apparato grammaticale sia “nascosto” dietro l'apparente indipendenza dell'immagine, non può essere una scusa per non indagare le sue regole. Il cinema ha riflettuto sempre su se stesso, sulle sue possibilità espressive e sui suoi limiti necessari. Nulla nasce per caso, della tecnica umana niente è spontaneo (nel senso di naturale). Un concetto che oggi forse sfugge, incantati (come agli albori del cinema) dalla spettacolarità superficiale dell'immagine.

Il primo aspetto tecnico che vorrei indagare è quello del montaggio. La definizione che ne da André Bazin nel libro “Che cos'è il cinema” cap. “L'evoluzione del linguaggio cinematografico” è molto utile:

“Per << immagine >> intendo, molto genericamente, tutto ciò che alla cosa rappresentata può aggiungere la sua rappresentazione sullo schermo. Si tratta di un rapporto complesso che può però essere sinteticamente ricondotto a due gruppi di fatti: la plasticità dell'immagine e le risorse del montaggio (il quale non è altro che l'organizzazione delle immagini nel tempo).”


André Bazin

Innanzitutto va notato che, la semplice organizzazione delle immagini nel tempo, non è poi così semplice. Il montaggio è un potente mezzo espressivo perché genera il senso. La relazione che si instaura tra le immagini è un qualcosa di nuovo, che esula dai singoli elementi. Uno di quei casi, insomma, dove il tutto va ben oltre la somma delle parti che lo compongono.
I primi ad indagare con metodo le potenzialità espressive del montaggio furono i cineasti sovietici. Famosissimo l'esperimento portato avanti dal regista Lev Vladimirovič Kulešov nel 1918. In cosa consisteva?

Lev Vladimirovič Kulešov


Kulešov prese un primo piano di un attore da un vecchio film dell'epoca zarista. Ivan Il'ič Mozžuchin. Il piano mostrava l'attore in una posa facciale inespressiva. Il regista replicò tre volte (utilizzando gli stessi fotogrammi) il piano dell'attore, ma tra le ripetizioni inserì altri tre piani, tematicamente scollegati tra di loro. Alla faccia sempre uguale di Mozžuchin si alternavano dunque un piatto di minestra, una bambina morta dentro ad una cassa, ed una donna semi-nuda.




La reazione del pubblico alla proiezione del cortometraggio fu imprevedibile (per tutti, tranne che per Kulešov probabilmente). Essi infatti rimasero sbalorditi dalle capacità espressive dell'attore. Nella stessa faccia inespressiva gli spettatori avevano ravvisato emozioni diverse, percependo chiaramente l'appetito dell'attore nel primo caso, un senso di tristezza nel secondo, e infine desiderio nel terzo. Tutti quanti, attribuendo un valore diverso ad una stessa inquadratura ripetuta in momenti diversi, erano stati ingannati dal montaggio operato dal regista. Questo fenomeno prese il nome di "effetto Kulešov". Cosa significa? 


 

Significa che il montaggio suggerisce, lo spettatore integra. La successione delle immagini trasfigura profondamente la percezione che se ne ha di esse, l'intelletto di chi guarda tende alla ricostruzione, a colmare l'informazione non presente tra le due immagini. È come se lo stacco di montaggio, impercepibile fotogramma mancante, fosse un abisso senza fondo al quale lo spettatore pone rimedio tramite un nesso, un vero e proprio ponte, logico e personale allo stesso tempo, costruendo così la via d'accesso a ciò che viene guardato. Si crea così un discorso, un nuovo senso, inscindibile non solo dal susseguirsi delle immagini, ma dall'esperienza dello spettatore.

Gli allievi di Kulešov, primo tra tutti Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, porteranno avanti gli studi del loro maestro. Le incredibili potenzialità espressive del montaggio li porteranno ad affermare che la “specificità filmica”, ovvero ciò che differenzia il testo filmico da qualsiasi altro tipo di narrazione, risiede proprio nel montaggio stesso.


Sergej Michajlovič Ėjzenštejn


Chiudo questa prima breve riflessione con una domanda, che sembra poi essere uno dei centri nodali (mai risolti) della, molto spesso, confusa teoria di Ėjzenštejn: chi genera veramente il senso? Volutamente prima ho parlato di nesso “logico e personale allo stesso tempo” in riferimento allo spettatore. Non è chiaro se il “di più” sia creato da chi guarda (e quindi strettamente personale) o sia logicamente implicito nel succedersi di due immagini. Il regista, o chi per lui, può veicolare il senso interno al montaggio ed anticipare le associazioni di chi guarda? Esiste la libertà dell'interpretazione o siamo schiavi della forma?