mercoledì 29 gennaio 2014

I Vitelloni [Fellini Checklist 3/24]




Dopo due commedie, anzi una e mezza (Le Luci del Varietà e Lo Sceicco Bianco), Fellini, con I Vitelloni, cambia decisamente registro virando su un cinema più drammatico, attuale. Facendo tesoro della filmografia neorealista, il regista filtra attraverso il suo inconfondibile tocco la descrizione di un'Italia disperata e provinciale. Un film che è un vero balzo in avanti, uno scarto netto rispetto alle sue produzioni precedenti. Ne I Vitelloni, per la prima volta, Fellini riesce a fondere racconto, autobiografia, suggestioni ed impressioni in un unicum che trascende i generi che si presenta come opera viva e sincera: è palese, ormai, ciò che si potrebbe definire “tocco”, quel qualcosa di così evidente ma indeterminato che separa un regista da un autore. L'incredibile capacità di imprimersi nell'opera, di rendersi riconoscibili attraverso essa.




"Sono un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo"

Nella provinciale Rimini, si aggirano cinque ragazzi. Troppo giovani per pensare al futuro, ma troppo vecchi per costruirsene uno, passano le loro giornate nella promessa di incominciare a vivere. Il loro è un movimento rotatorio, circolare: si trascinano senza una meta per strada, non hanno orari, andare avanti significa tornare indietro, a casa. Ogni giorno vale l'altro. Fellini racconta questa storia in modo perfetto, articolando la sceneggiatura in una struttura episodica in cui a turno i cinque vitelloni si scambiano il ruolo di protagonista. L'esito è sempre lo stesso: un sostanziale fallimento dove le possibilità di salvezza da un determinato ambiente vengono negate brutalmente. La grandissima intuizione del regista risiede nell'affermare implicitamente la natura della disgrazia: sono i giovani a condannarsi da soli, a non voler uscire da questo circolo vizioso che sembra averli intrappolati per sempre. Il finale, speranzoso ma straziante allo stesso tempo, racchiude tutta la potenza dell'espressività narrativa di Fellini: l'unico ragazzo che cede all'impulso di rinnovamento, doppiato solo in quella scena dallo stesso regista, abbandona tutto e tutti senza riuscire a capire veramente il perché. Gli basta solo pensare un'ultima volta ai suoi amici, per sempre uguali, per sempre addormentati.






Questa continua tensione tra serio e faceto, dramma e commedia, buoni propositi e realtà, è il motore pulsante del film, e in quanto tale non si risolve mai. Tra tutti, proprio come nello Sceicco Bianco, si distingue il personaggio di Alberto Sordi che incarna questa contraddizione di fondo. Bambino troppo cresciuto, disoccupato per sempre, moralista ma volgare, attaccato alla famiglia ma sostanzialmente anaffettivo. Fellini intuisce le potenzialità espressive dell'attore e spinge fino al limite la macchietta del romanissimo Sordi, fino a farlo trasformare in una donna. Ecco, la scena del ballo di carnevale è il cuore pulsante del film, molto più della (certo divertente) pernacchia ai lavoratori della malta. Innanzitutto, esplicita in maniera evidente la tematica dell'incredibile potere trasfigurante dell'arte agli occhi del regista. A tal proposito, numerosi sono gli episodi interni alla pellicola che rimandano a questo nucleo tematico: è come se le uniche variazioni possibili di una vita intrappolata nel quotidiano siano le rituali rappresentazioni delle festività, il mettersi in gioco carnevalesco che ha senso solo nel suo dato momento. Ma anche il cinema, il teatro, la sfilata sono gli unici momenti in cui il singolo riesce ad abbandonarsi alla propria fantasia, a vivere l'illusione del reale.




Ritornando al ballo di carnevale, è il perfetto esempio di messa in scena felliniana, se così si può dire. Incredibilmente già al di là del neorealismo, si sceglie di raccontare il vero non attraverso un occhio sincero, oggettivo, ma tramite lo scardinamento del normale. Il surrealismo diventa l'unica strada possibile per affrontare la realtà nel modo più concreto: è solo nel suo superamento, nella sua parodizzazione, che la vita può osservarsi fedelmente.
Senza entrare nell'analisi approfondita della scena (sezionarla significherebbe ucciderla), suggerisco di focalizzarsi sulla fluidità della regia di Fellini e su come essi si sposino con le musiche di Nino Rota, connubio artistico che segnerà gran parte della filmografia dell'autore. Inoltre, non da sottovalutare, l'irrompere violento dell'iconografia clownesca, simbolo che diventerà riproposizione costante nell'immaginario del regista.





Una volta c'era un'Italia stanca in partenza. Incapace di alzarsi, che non voleva vivere. Era un paese nato morto, senza voglia di futuro. Chi ci viveva, sapeva che nulla sarebbe mai cambiato, che la sua casa era già la sua tomba.

C'era una volta questa Italia: ora non esiste più.

2 commenti:

  1. Letto tutto d'un fiato... analisi e critica ancora una volta inoppugnabili ed illuminanti! Mi piace molto il nuovo taglio, sintetico ed efficace. Condivido la scelta della scena del ballo come elemento centrale, essenza dell'opera felliniana.
    Michele, non c'è dubbio: i tuoi studi cinematografici ed il tuo lavoro di critico procedono davvero nel miglior modo possibile!

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    1. Non sai che piacere che mi fanno queste parole, sei sempre troppo buono!
      Tanti saluti (anche da parte di Ornella), a presto!

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