domenica 28 aprile 2013

In the Mailbox [4]: Grandi acquisti



Tanta carne al fuoco, per la serie: ma dove li trovi tutti questi soldi? Seguirà: tranquilli, stanno per finire.

Iniziamo:

Musicalmente beccatevi niente popò di meno che Django (quello con 3 dita, non quello negro) e i Sigur Rós


Quanto è bella la stampa sul cd di Takk? Per il chitarrista manouche abbiamo invece una compilation dal nome Nuages.

Il 20 aprile c'è stato il Record Store Day e di conseguenza sono uscite parecchie cose interessanti. La feltrinelli proponeva una piccola sezione dedicata a questo evento, mi sono preso un 7'' dei Beatles, che a quanto pare non risulta nel catalogo ufficiale delle uscite del RSD 2013. Boh! Comunque il disco era troppo carino per non prenderlo:


A side: Love me do B side: P.S. I love you


Per quanto riguarda il ciMena, un sacco di film belli. Il primo è L'angelo sterminatore di Luis Buñuel (avete letto la recensione, vero?!?), in una bellissima versione edita dalla Dynit:





Si prosegue con un altro grande classico: Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, carina l'edizione, peccato per il booklet solo digitale:




Preso anche Big Fish di Tim Burton, in Bluray. Film visto solo di recente, ma che mi ha letteralmente stregato, sotto i 10 euro sarebbe stato un vero peccato lasciarselo sfuggire!




Si continua con un altro grande classicone, Metropolis di Fritz Lang:



Infine un film a cui sono particolarmente legato: Essi Vivono, di John Carpenter. In un'edizione, tral'altro, gustosissima: è presente un booklet pieno di informazioni e analisi dettagliate, scritto da Massimo Causo:



Puntuali come la tappa al bagno dopo il caffè mattutino, escono anche questa settimana i Pink Floyd in edicola. Questa volta è il turno di The Divison Bell:




Continua l'appuntamento (a questo punto credo ogni due settimane) con le ERB, episodio niente male, per la seconda volta di fila:




Per ora è tutto, anche se nei prossimi giorni arriverà un ordine niente male da ebay. Poi i soldi saranno finiti sul serio.

Out!

sabato 27 aprile 2013

L'angelo sterminatore



 El Angel Exterminador
Titolo italiano Regia Anno Genere Con
L'angelo sterminatore Luis Buñuel 1962 Drammatico Silvia Pinal,
Enrique Rambal
Dopo una serata a teatro, una famiglia di borghesi invita un gruppo di aristocratici a cena. Gli invitati, stranamente, si ritrovano a passare la notte nel salone della casa. La mattina seguente, con loro grande errore, realizzano di non essere in grado di uscire dalla casa...



Giustificazione sulla pretesa del dialogo 

 
È dopo la visione di pellicole come L'angelo Sterminatore che ci si rende conto che il senso si genera nella sua assenza. È la cultura che ci impone il nesso logico, è l'horror vacui ad esigere il totale riempimento. Di fronte a questo film, essenzialmente impenetrabile, è difficile trovare l'approccio corretto. Escludendo qualsiasi intento interpretativo, una sua recensione non può che basarsi fortemente sul punto di vista dello spettatore. Superata la premessa narrativa della prigionia nella casa, unico dato concreto della storia, il resto è lasciato al senso interno del fruitore: l'opera può acquistare una direzione, solo se presa in simbiosi con ogni sua determinata ricezione. Il testo proposto è quindi la presa in considerazione, fortemente soggettiva, di alcuni elementi arbitrari. Punti sconnessi, quasi appunti scritti di getto, risultano per me l'unica via di accesso, l'unica strada percorribile in un labirinto sconfinato. L'unico senso possibile, nel surrealismo più autentico.

Storia di un ritardo


Parlare oggi di un film uscito nel 1962 potrebbe sembrare un contro-senso, un appuntamento mancato con un dialogo ormai morto. Credo, però, che l'assenza di contenuto logico-razionale permetta a quest'opera di uscire dal suo tempo e riformularsi ad ogni sua visione. L'angelo sterminatore sempre sarà, pur non essendo mai. Suggerimenti, suggestioni, colgono lo spettatore e lo scuotono nel profondo, scevro da ogni sua determinazione intellettuale. Il vantaggio di essere in ritardo è quello di aver disponibile una maggior consapevolezza sulla genesi dell'opera, grazie a studi e ricerche svolte in merito. Leggendo le informazioni contenute nel libretto dell'edizione integrale della dynit, emerge un punto fondamentale: la prima edizione italiana è falsata. Nel montaggio, in quanto non viene colta la radicale scelta di Buñuel, e nella traduzione. Molte scene riportano dialoghi completamente modificati che stravolgono il senso della pellicola. O meglio: con l'inserimento di queste modifiche, i traduttori, alludono ad un disegno, ad un senso vero e proprio, che non è presente nell'opera originale. Ad esempio, identificando l'orso con l'angelo sterminatore, si depista completamente lo spettatore, in quanto è portato a credere che la comprensione del film, una volta riorganizzati gli indizi, sia possibile. Tutto ciò non può avverarsi. Le stesse parole di Buñuel sono chiarificatorie:

“Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita, e, come essa, soggetto a molte interpretazioni. L'autore dichiara che non ha voluto giocare su dei simboli, almeno coscientemente, Forse la migliore spiegazione per L'angelo sterminatore è che, ragionevolmente, non ne ha alcuna”




L'immobilità dell'uomo: coazione a ripetere


Comunemente riconosciuto, il perno narrativo della cattività nel salone può essere visto come una metafora dell'incapacità di rinnovarsi da parte della borghesia e, nel finale, della Chiesa. Esse divengono istituzioni morenti in quanto non in grado di uscire dal loro dogmatismo. Non possono far parte della società, lo spazio comune è vietato. L'isolamento, però, è una condanna auto-imposta: non c'è nessun ostacolo, solo un'incapacità di fondo. Il difetto, la mancanza, risiede nella volontà mistificatoria di escludere la corporalità dalla propria essenza. Anche nel momento più basso e degradante, dove gli uomini ormai hanno perso la conquista della posizione eretta e si aggirano per il salone a quattro zampe, l'istinto di conservazione di una coscienza collettiva non si spegne. La morte, il sesso e la passionalità, il putrido e gli escrementi, tutto viene celato: che sia un armadio o uno sgabuzzino, tutto viene chiuso a chiave e celato alla vista. Nel palcoscenico della propria esistenza, la borghesia in putrefazione non può mettere in scena ciò che razionalmente sfugge al controllo dei suoi componenti. Le sfere non individualizzabili delle pulsioni e dell'inconscio, insieme all'ineludibilità della propria corporalità, devono essere rifuggite in nome di un'identità collettiva, pena l'estinzione. La sopravvivenza viene dunque affidata alla ripetizione, intesa come volontà di ritorno ad una condizione che esula dal confronto, dall'autocoscienza. Ma questa non è una salvezza: il senso della vita non può essere racchiuso in un rifiuto razionale, non si può pretendere l'atemporalità nell'esistenza. L'ottica generale non è quindi quella limitata della borghesia, è la vita ad essere chiamata in causa, come accennato dall'autore nelle parole introduttive al film. L'angelo sterminatore, mai nominato nella versione originale, è a mio avviso il dramma identitario: è esso che reclama a sé, al proprio sguardo giudicante, l'uomo nel suo più intimo luogo. La società contemporanea è destinata all'immobilismo. L'uomo è un animale morente, le sovrastrutture istituite (emblematica la coazione a ripetere nella chiesa) un medicinale che non cura ma ritarda all'infinito l'inevitabile fine.




Il montaggio nelle relazioni


Le convenzioni sono la sovrastruttura che crea la maschera dell'animale: l'uomo. Ciò che esso guadagna in identità lo perde in possibilità di relazione. In questa ottica colgo un senso nelle scelte di montaggio: le più grandi e palesi ripetizioni, avvengono nell'introduzione degli ospiti. Sia quando tutti entrano nel contesto, la villa, sia nel momento in cui si presentano tra di loro. Il mondo asettico della formalità, imbrigliato nella violenza delle regole comportamentali, annulla qualsiasi deriva contenutistica del conoscersi: gli incontri avverranno infinite volte, ma non saranno mai genuini. Non c'è nessun reale intento comunicativo nell'affacciarsi all'altro e una reazione vale l'altra: in ogni caso, non sarà recepita.



Il simbolismo: lo scherzo


Il simbolismo alla base dell'opera è accidentale. Le immagini prese in prestito sono solo richiami all'esperienza, suggestioni allusive ad un vissuto privato ed impenetrabile del regista. La critica interpretativa non può muoversi su di un piano razionalmente logico, non c'è alcun nesso tra gli elementi del film. L'angelo sterminatore non è un'entità metafisica, non c'è nessun rimando reale alla Bibbia: esso è solo un titolo accattivante, scelto per attirare l'attenzione tramite un potente suggerimento, destinato però a non rappresentare ciò a cui allude.
La cena, pensata dalla padrona come un grande scherzo, è un indizio di questa costruzione. Gli agnelli e l'orso, che nella loro presenza così decontestualizzante scatenano un processo inquisitorio nella mente dello spettatore (agnelli come vittime sacrificali? L'orso come riferimento alla russia e alla sua egemonia? O va interpretato anch'esso in senso biblico) che muore nello stesso momento in cui si origina: gli animali solo solo un altro tassello di una grande farsa, non ci sarà mai dato conoscere il loro ruolo. La pellicola è surrealista in senso stretto.


lunedì 22 aprile 2013

Solo su richiesta [1]: Crash - Contatto Fisico



«Proponimi un titolo per una recensione.»
«Crash»
«Dai non ci credo, quello di Cronenberg?»
«Boh non lo so. Però ci sta Sandra Bullock ...»






Inizia così la rubrica delle recensioni su richiesta. Crash è un film che non avrei mai visto. Il Dottor C. me ne ha consigliato la visione. Il fatto che consideri il Dottor C. una persona ai limiti della moralità, in altre situazioni mi avrebbe portato ad ignorare con un sorriso di circostanza il consiglio di un individuo che, insomma, non è che abbia i gusti proprio raffinati. Nella sua macchina ho sempre ascoltato due soli cd: un live di Ligabue e “La dura legge del gol!” degli 883. Ovvio che al nome di Crash, seguito da quello di Sandra Bullock e condito con un per niente rassicurante “e invece guarda, ti sorprenderà”, sarei dovuto fuggire a gambe levate. Il Dottor C. però è il primo ospite/protagonista di questa rubrica. Non si scappa. Ecco a voi: 

 

Solo su richiesta: Crash - Contatto Fisico 

 

Crash
Titolo italiano Regia Anno Genere Con
Crash – Contatto Fisico Paul Haggis 2004 Drammatico Sandra Bullock,
Don Cheadle
In una Los Angeles violenta e razzista, sembra impossibile ormai rapportarsi all'altro in maniera genuina e sincera. Numerosi personaggi si muovono nella città, isolati dalla loro stessa diffidenza. Agiscono in un contesto che li rende intimamente vicini, seppur inconsapevolmente...

 
Crash è un disastro. Se il film fosse un incidente sarebbe un tamponamento maldestro, di quelli che non ti capaciti di come sia potuto accadere. Sei la, pronto a fare il CID, incazzato nero, ma alla fine nessuna delle due macchine si è abbozzata. Rimane l'incazzatura, ormai mista al risentimento e a un senso di rassegnazione. Uno sguardo d'intesa con l'altro autista, si rimane in silenzio, si rientra in macchina e via, estranei come prima. Ma come guida la gente? Era meglio rimanere a casa.


In una recente intervista, Sandra Bullock ha dichiarato di ispirarsi pesantemente alla figura di Daniela Santanchè.


L'intento di Crash è quello di risultare un film intelligente, impegnato. Non riesce però a sollevarsi da una pretestuosità di fondo che lo incolla alla mediocrità. La volontà di dipingere un grande affresco, dove ogni singolo evento è collegato in maniera naturale da una cieca ma imperscrutabile causalità, fallisce nell'essere il perno della narrazione e risulta solo un piccolo accidente. Da fissare l'attenzione sull'anno di uscita del film, il 2004. È l'anno in cui inizia anche Lost: l'immaginario americano sembra volersi appropriare di un misticismo fatalista culturalmente lontano dalle sue radici. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Da notare subito due aspetti del film. Il mio odio per Sandra Bullock non inficia certo la pretesa di universalità del mio giudizio: oggettivamente, è proprio inguardabile nella sua plasticosità. In più ha il ruolo di una stronza colossale aggiunta solo per far numero. Per il resto, tra Matt Dillon, Ludacris e Brendan Fraser la scelta del cast risulta poco credibile e, volendo, infelice.
Anche la colonna sonora si inserisce perfettamente in un clima di banalità imperante. Si inizia con una pedante melodia dal sapore orientale, che ci accompagna per tre quarti del film, usata per ricordarci ossessivamente – per la serie: non si sa mai quanto può essere stupido chi ci guarda – che siamo tutti collegati, che ci sono il karma e tanti altri concetti sfuggevoli che nella loro non reale presenza ci DEVONO impressionare. La musica segue il dipanarsi della storia, e all'americana redenzione di una società piena di individui distanti e razzisti, ma tutto sommato buoni se sollecitati dal caso, corrisponde il melenso pop-rock degli Stereophonics. La classica canzone da sguardi fissi nel vuoto durante la realizzazione “ammazza che cosa assurda la vita” (ma anche questo film non scherza).  Da un punto di vista musicale, il prodotto finale non riesce a superare l'alone di mediocrità che circoscrive ogni suo aspetto.
Per quanto riguarda il lato narrativo, la forzatura non risiede solo nell'intreccio di storie sostanzialmente banali e stereotipate, ma nella modalità in cui esso stesso si dipana. Abbiamo così la prima metà del film volta a delineare in modo manicheo i personaggi: circa un'ora di banalità e insulti razzisti solo per farci capire quanto l'uomo moderno sia incapace di rapportarsi verso l'altro. Tutto gestito in un modo così stucchevole e ridondante da perdere di credibilità: non che Sandra Bullock ne abbia mai avuta una. Ma alla battuta di Don Cheadle “mamma lasciami perdere sto facendo sesso con una donna bianca” non si sa se bisogna ridere o piangere.


"Ciao mamma"

La seconda parte del film, partendo da delle basi non proprio solide, si risolve in un nulla di fatto: gli “incontri”, non necessari e telefonati praticamente da inizio film, non sono privi di pathos emozionale, ma sono incapaci di concretizzarsi in qualcosa di interessante. Il regista, Haggins, ci ricorda che dopotutto la sua è una produzione Hollywoodiana, l'ennesimo polpettone sentimentalista e melodrammatico che non ha il coraggio di turbare fino in fondo i suoi potenziali spettatori.
Il film si chiude nel più classico dei modi: redenzione, consapevolezza (anche se non si sa bene di cosa) ed ennesimo, gratuito, incidente stradale che vede coinvolta, guarda caso, una tizia che era già apparsa su schermo, ma di cui sinceramente non ce ne fregava niente. Il film, per l'ultima volta, ammicca spudoratamente allo spettatore, per appellarsi al suo auto-compiacimento implicito nel riconoscimento: peccato che il puzzle da ricostruire sia di soli 5 pezzi, non c'è nessuna arguzia di fondo nel comprendere la trama, solo una ruffiana messa in scena pensata per accrescere l'auto-stima dello spettatore medio.
Alla fine, non rimane che stringere un santino di San Cristoforo (che a quanto pare, porta sfiga) e si piange. Un pianto triste dove scorrono lacrime di rammarico ma consapevoli in quanto pseudo-edificanti: in fondo che ci vuoi fare, è la vita. Gli americani, però, non sanno guidare.

San Cristoforo, pensaci tu...

 

Alcune scene


- Ludacris si cimenta in uno spiegone su come funzionino in realtà le dinamiche razziste in una società dominata dalla sfacciataggine dell'uomo bianco. Tutto con un dialogo frenetico, senza pause, una parlantina veramente cool. Poi, portato lo spettatore dalla parte del povero discriminato, estrae la pistola e ruba una macchina. Due considerazioni:
1)  Hai comunque rapinato Sandra Bullock e Brendan Fraser, chi sono io per condannarti?
2) Tutto questo non può che riportare alla mente la scena iniziale di Pulp Fiction. Solo che quella scena funzionava in ogni suo aspetto: didaloghi ed attori compresi. La rapina coglieva di sorpresa nel film di Tarantino, qui strappa un sorriso.

Fraser in una delle sue caratteristiche, ed involontarie, espressioni facciali.

- Scena di grande pathos quella del poliziotto che si prodiga per salvare la donna, molestata in precedenza (!!!), intrappolata in una macchina che sta per esplodere. Una giusta scelta delle inquadrature e dei tempi riesce a catturare l'attenzione. Peccato che tutto si risolva, annullando qualsiasi aspettativa e credibilità, nel migliore dei modi possibili. Donna salva, poliziotto semi-redento.


E vissero felici e contenti.

- Sintomatica la scena del set televisivo. Il registra, viene obbligato a ripetere una scena da un altro personaggio, di cui non si capisce bene il ruolo, ma ce lo immaginiamo. La scena, buona per il regista, è da rifare perchè l'attore nero ha usato un linguaggio non consono a un personaggio di colore. La tv deve riproporre gli stereotipi che fanno sentire comodi gli spettatori sulla loro poltrona. Qui il violento ed implicito imporsi del razzismo nella comunicazione di massa. Peccato che tutto questo arrivi dopo quaranta minuti di insulti a cinesi, negri, ispanici etc. etc. portati unicamente per caratterizzare i personaggi e il contesto in cui si muovono. Quello che vuole passare per un atto di denuncia, è in realtà l'unico terreno su cui la pellicola riesce a muoversi e a svilupparsi. Il film drammaticamente, poiché inconsapevolmente, accusa sé stesso, nel disperato tentativo di legittimare una banale identità.

"Cerca di essere meno erudito e più negro!"

giovedì 18 aprile 2013

In the Mailbox [3]: Avoglia ad allenarsi...

Non bisogna mollare, anche quando lo slancio iniziale tende a spegnersi. Eccoci dunque all'ennesimo (non richiesto) aggiornamento sui miei acquisti.

Neanche a farlo a posta, si parlava nel precedente aggiornamento proprio di Brent Hinds e di Mastodon, ed eccolo che arriva nella cassetta delle lettere proprio lui: Remission

A quanto pare mi sono beccato la versione argentina distribuita dalla "Icarus": le magie dell'e-shopping!


Artwork stupendo, musicalmente uno tra i più belli dei mastodon (secondo solo a Leviathan). Un esordio di una brutalità e di una cattiveria senza eguali, tutto accompagnato dai primi accenni ad alcune atmosfere che caratterizzeranno i loro lavori successivi. Un must.


Proseguiamo con l'acquisto veramente nerd della settimana. Ordinati prima del 14 febbraio (si, è una sorta di regalo di San Valentino) si palesano solo qualche giorno fa. Anche del buon Frusciante se ne parlava lo scorso post, e infatti:




Doppio dvd licaonico con tutte le puntate della stagione 2011/2012 delle recensioni di Frusciante in versione "uncut", ovvero: cosa succede senza montaggio? Federico che da il resto ai clienti, sostanzialmente. In più anche la maglietta, questa si nerdissima, da vero fanboy: non capisci un cazzo di cinema, non è grave. Finalmente potrò darmi un tono anche io.


Ed eccoci alla segnalazione settimanale pinkfloydiana. È uscito UMMAGUMMA




Doppio cd a 12,90 euros... non male!
Per ora mi limito a rinnovare la promessa della prima recensione su richiesta, un impegno è un impegno. Aggiungo che, avendo giocato e finito Bioshock Infinite sento la necessità di scrivere qualcosa a riguardo. Un'esperienza unica, credo di aver riacquistato fiducia nel videogioco come "medium". Come veicolo di un contenuto, unico nel suo configurarsi ludicamente. Forse in tutto il genere umano. Ken Levine, ti amo.

Out!

sabato 13 aprile 2013

In the Mailbox [2]: tanto per rimanere allenati...

Quick update tanto per non far morire subito il blog. Per la serie "finanze giustamente investite", arriva per posta l'ennesimo (ormai sono quasi finiti) ciddì dei Dillinger Escape Plan: signori e signore, ecco a voi Ire Works




Artwork, come al solito, molto accattivante. Apprezzo molto il fatto che ogni loro album si rinnovi completamente dal punto di vista del design. Aspettando il futuro acquisto di Option: Paralysis, ricordo la presenza di Brent Hinds, chitarrista dei Mastodon, nella traccia nr. 12: Horse Hunter
 
Sul Tubo, invece, è uscito sul canale dei Licaoni, il nuovo episodio delle videorecensioni di Frusciante. Stavolta la monografia è dedicata a Rob Zombie:




Uno degli stimoli principali all'apertura di questo blog, e quindi al mio interesse critico verso il cinema, viene proprio da questo toscanaccio doc. Le sue recensioni, oltre ad essere divertentissime, non solo mi hanno fatto conoscere autori mai sentiti prima, ma mi sono state utili ad indicare un approccio "diverso" (di sicuro non l'unico possibile)  al cinema come medium. Un sentito ringraziamento a Frusciante e a tutti i Licaoni.

Annuncio, solo per impormi l'obbligo, che presto arriverà una recensione di un film su richiesta. Recensione in senso stretto, non un'analisi particolare. Magari pure divertente. Chissà.

Out!

giovedì 11 aprile 2013

In the Mailbox [1]... E in più: cosa aspettarsi dal futuro

Una piccola pausa dalle analisi/pseudo-recensioni cinemaografiche per lanciare due mini-rubriche. Sicuramente meno pretenziose, indicano da una parte, l'esplicita volontà di esplorare tutte le potenzialità offerte da un blog, dall'altra una disarmante assenza di direzionalità in quello che scrivo. Cosa sto facendo?
  • In the Mailbox: Principalmente foto dei miei acquisti, che nel 90% dei casi arrivano via posta, da qui l'originalissimo titolo, più qualche accenno alle novità pubblicate nel panorama musicale/cinematografico e non solo.
  • Cosa aspettarsi dal futuro: una sorta di agenda/reminder/sveglia su cosa verrà pubblicato. Musica, cinema, libri, qualsiasi cosa. Indicare dove catalizzare la propria attenzione, ma soprattutto perchè farlo. Cosa ci aspetta? Segnamolo sul calendario.
Ok? Ok. Pronti, partenza...

In the Mailbox



Grazie a Discogs, ho finalmente trovato un modo di soddisfare il mio feticismo (musicalmente) periferico. È arrivata oggi la seconda parte di un ordine proveniente dall'Inghilterra:

Calculating Infinity e Irony is a Dead Scene



Insolita l'idea della copertina composta dal booklet più un pezzo di cartoncino ripiegato



Unita insieme alla prima parte dell'ordine, che consiste in Under the Running Board, Miss Machine e (l'anonimo quanto trascurabilissimo, ahimè) The Beyond dei Cult of Luna, si potrebbe tranquillamente pensare che io sia un grandissimo fan dei Dillinger Escape Plan, o al massimo uno piscopatico con pessimi gusti musicali. 

Notevole il digipack di Miss Machine con dvd bonus. I video delle performance live sono a dir poco inquietanti.

Scarto entrambe le ipotesi, sono solo un curioso ascoltatore del tipo "se i cd te li tirano dietro... perchè no?" Capitolo a parte per quanto riguarda Mike Patton. Per lui si, sono pazzo e fanboy.
Segnalo, inoltre l'uscita, del quinto cd della collana "Pink Floyd", reperibile in edicola con la Repubblica o TV Sorrisi e canzoni. Stavolta tocca ad Animals:


La riedizione è molto carina, digipack, copertine originali e booklet pieni di foto. Nessun logo di riviste o cose del genere. L'unico difetto la stampa sul cd, tematicamente uguale per ogni uscita, cambia solo la scelta cromatica. Peccato.

Questa edizione si basa sulle tracce audio della versione "remastered" delle opere dei Pink Floyd uscita nel 2011




Acquisto consigliato, l'importante è non comprare TV Sorrisi e canzoni.

Infine, non è nella mailbox ma è comunque uscito, ecco a voi l'ultimo episodio pubblicato delle Epic Rap Battles of History. Un divertentissimo Skrillex Vs. Mozart riporta la serie ai suoi antichi fasti:



Cosa aspettarsi dal futuro


- Per puro caso, oggi è la loro giornata, scopro che il 15 maggio uscirà il nuovo cd dei Dillinger Escape Plan, dal titolo: One of us is the Killer per l'etichetta Party Smasher/Sumerian.
Qui il primo singolo estratto dall'album: Prancer. Sicuramente un disco da tenere d'occhio, se il genere piace. Difficile riuscire ad assimilarli, ma in quello che fanno (per alcuni: cacofonia) sono tra i migliori.






- Continua l'attesa per l'omonimo album di debutto dei Palms. Supergruppo formato da Jeff Caxide (basso), Aaron Harris (batteria), Bryant Cliffor Meyer (tastiere), tutti e tre ex-membri dei defunti Isis, con l'apporto di Chino Moreno (voce), ben più famoso  frontman dei Deftones. La curiosità c'è, anche se la puzza di fregatura un pò si respira: i superfeaturing raramente (vedi anche: mai) rendono giustizia alle aspettative.
L'album uscirà il 25/6/2013 sotto l'etichetta Ipecac Recordings. Si, quella di Mike Patton. Si, lo amo.


Oh, quanto lo amo...
- Sempre a Maggio, il 17 questa volta, uscirà il nuovo album del simpatico duo di robottini Daft Punk. Il titolo: Random Access Memory. Dopo i due capolavori di Homework e Discovery, il mezzo (falso) passo falso di Human After All e una serie di videoclip musicali che fatto storia, un pò tutti siamo in trepidante attesa. Secondo me, ce la fanno.

One more time!


Dal fronte cinematografico, cosa ci aspetta?

- Innanzitutto, bisogna avere paura del prequel di 300, 300: rise of an empire, diretto sempre da Zack Snyder, e del secondo adattamento su pellicola di Sin City, Sin City: A Dame to Kill For. Sebbene le aspettative del prequel di 300 siano ben più basse dell'altro titolo atteso, i terribili presagi ci sono per entrambi: Frank Miller, indirizzato dal suo fascismo (non tanto) latente, è un soggetto irrequieto di difficile prevedibilità. Adattarlo al cinema poi, è sempre una scommessa. Consoliamoci che da una parte abbiamo Eva Green, dall'altra Jessica Alba. Per tutti i gusti.


Come dimenticare?


- Si dice che David Lynch, anzi è proprio lui a dirlo, insieme a Laura Dern, sia a lavoro sul suo prossimo progetto. Cinematografico, questa volta. A quanto pare anche loro hanno avuto bisogno di tempo per riprendersi da Inland Empire. Comunque, godo.

"Ci sono un napoletano, un romano e un carabiniere. Il primo fa:.."
- Sembra che il remake di Escape From New York, prima o poi (speriamo poi), si farà. Tra i papabili Snake Plissken abbiamo: Jason Statham e Tom Hardy. Il primo un pelato, il secondo una scelta potenzialmente interessante, anche se difficile da immaginare come sostituto di Kurt Russel.

Tom Hardy in Bronson. Per Snake, serviranno sicuramente più capelli. E una benda. Ah, e una canotta.


- È uscito anche in Italia il film The Place Beyond the Pines, da noi poeticamente ribattezzato "Come un tuono", diretto da Derek Cianfrance. La scelta di Ryan Gosling come protagonista invoglia certo alla visione, pareri della critica parecchio discordanti sia in America che qui in Italia, reprimono questa gioia. Potenzialmente, un polpettone. Vedremo. La colonna sonora, che ve lo dico a fare, è di Mike Patton. Eh già. È ovunque. Come fate a non amarlo?








- L'ombra del dubbio svanisce (se fossi veramente sagace direi: "[...]svanisce per essere rimpiazzata dall'ombra proiettata da una monolitica erezione scaturita dalla sola visione..." Ma aspetterò di avere un po' più di confidenza con il medium blog. Giocarsi la prima allusione sessuale è un passo importante. Non mi sento ancora pronto, aspetto la persona giusta etc. etc.) con il primo trailer della nuova fatica Refn/Gosling, Only God Forgives. Si continua sulla stessa scia di Drive, l'impazienza è alle stelle.



A parte questo, è bandita la visione di futuri trailer. Bisogna andare al cinema e potersi ancora meravigliare.

martedì 9 aprile 2013

John Carpenter e Kurt Russell: il destino dell'eroe americano



In questo post si parla di:








Il cinema di Carpenter è fantastico perché creativo. Il regista è riuscito con i suoi film, nonostante budget limitatissimi nella maggior parte delle sue produzioni, a dare origine a novità di ogni tipo che sono poi diventate, una volta assimilate dalla massa, linguaggio comune nel cinema contemporaneo. Ciò che non ha avuto successo all'epoca, è diventato oggetto di culto al giorno d'oggi. Uno dei suoi numerosi apporti al cinema americano è stato quello di aver fornito le basi per la creazione dell'action movie moderno, introducendo, anche grazie al sodalizio con Kurt Russell, due personaggi ormai divenuti vere e proprie icone.


Premessa: Napoleon Wilson in  Distretto 13


Sebbene Kurt Russell non sia presente nel film, è indubbio che in Carpenter inizi a germogliare l'idea di un certo tipo di personaggio. Nella storia è così presente Napoleon Wilson (Darwin Joston), vero prototipo di Snake Plissken. L'impostazione è proprio quella che caratterizzerà il protagonista di Escape From New York: totale assenza di background volta a suscitare riverenza ed ammirazione da parte degli altri personaggi. Attorno a Napoleone, così come a Plissken, ruota un mondo di curiosità inesauribile.

Sapientemente, Carpenter non fornisce le motivazioni della condanna a morte di Napoleon

Egli è una figura scolpita nella tradizione e radicata nella coscienza collettiva, volta unicamente a determinare il senso di inadeguatezza dell'individuo: l'eroe è lì, tra il bene e il male, è nel giusto ma per forza fuori dai confini della moralità accettata (e accettabile).

Snake Plissken in “Escape From New York”


L'incipit di Escape From New York è chiaro: la missione presentata, è un suicidio. Lì, dentro al cuore pulsante dell'occidente, ma fuori dai vincoli imposti dalla civilizzazione, nessun uomo libero potrebbe sopravvivere. Carpenter crea questa situazione in modo da poter preparare l'unico terreno possibile di azione per un personaggio del calibro di Snake Plissken: egli è più di un semplice uomo, la sua figura deve sfociare da subito nel mito.
Il suo presentarsi è sempre destabilizzante (da qui la frase con cui verrà accolto sempre “ti facevo più alto”) in quanto la leggenda è pura fantasia, l'uomo che la rappresenta non può mai reggere il confronto con l'immaginazione che lo crea e lo rende immortale. Esteticamente, Carpenter crea un contenitore: il corpo di Kurt Russell diviene la forma tipo dell'action hero, da li ai venti anni a seguire. Dall'occhio bendato alla postura, dalle espressioni facciali alla canottiera, vengono stilate le caratteristiche tipiche di una figura destinata a numerose ri-concretizzazioni: è nata una maschera.
Quello che gli permette di essere eretto a simbolo di una categoria, è il contenuto solo alluso: i riferimenti al suo passato sono pochi e, volutamente, confusi. E' leggenda proprio in quanto è presente ma mai realmente raggiungibile: Snake è poco più di un miraggio, una vera e propria ombra. Non servono dettagli che lo strapperebbero da quell'alone di indeterminatezza e confusione che gli permettono di essere se stesso e familiare a tutti, ma allo stesso tempo un grande buco nero nella storia americana, un fantasma pensato e re-immaginato dalla collettività in modo mai uguale. È nel rapporto con la collettività che l'eroe si configura come tale: Snake sarà per sempre un outsider, una figura fuori dal tempo che compare dal nulla per risolvere la situazione e in fine scomparire di nuovo senza lasciare traccia. Il finale non rappresenta solo il rifiuto di una società gretta e spietata, rappresentante di quei falsi valori di cui si fa portatore il civilizzato cittadino degli Stati Uniti d'America: la sua è una condanna totale all'uomo in quanto tale. Niente divide il Conte dal presidente degli USA, non c'è differenza tra la prigione di stato di New York e una qualsiasi metropoli americana “legittima”. L'umanità si dimostra incapace di configurarsi pacificamente, l'impulso alla società è impossibile. Snake chiede il distacco finale (“chiamami Plissken”), lascia il mondo all'autodistruzione e rifiuta di fatto la socialità in sé, non una determinata etica in favore di un'altra.

L'outsider per eccellenza, non può non essere un fumatore.


Jack Burton in “Big Trouble in Little China”


In “Big Trouble in Little China” la formula Carpenter/Russell viene ripresentata, ma questa volta la prospettiva è completamente ribaltata. Jack Burton, il personaggio impersonato da Kurt Russell, è la dissacrante parodia di Snake Plissken e di tutti i suoi cloni. L'involucro, Russell, è lo stesso ma stavolta ci troviamo ad una figura diametralmente opposta: l'alone di mistero che serpeggia intorno a Snake in Jack Burton svanisce completamente per una cristallina e inequivocabile rappresentazione dell'idiozia americana. Il procedimento di caratterizzazione è il medesimo: non c'è alcuna sovrabbondanza di informazioni riguardo al personaggio, egli funziona in quanto è presente. Con Snake è lo spettatore a caricare di aspettativa e a riempire di contenuto una figura così potenzialmente carismatica, grazie ad una gestione dei dialoghi impeccabile, mentre con Jack Burton c'è poco da fantasticare. Egli è il simbolo della povertà espressiva dell'americano medio: armato di jeans, canotta e panino in mano, la sua unica aspirazione è ritrovare il suo camion. Jack Burton parla di sé in terza persona, convinto non solo della sua sagacia ma del suo stesso essere leggenda. Anche lui è un outsider, ma in modo diverso: non c'è nessuna scelta razionale, nessuna volontà di condanna, solo un'incapacità di fondo. Incapacità, innanzitutto, di stare al passo con gli altri: tutte le scene di azione iniziano con Burton che si mette fuori gioco da solo – mitra che gli scappano dalle mani, calcinacci in testa che lo fanno svenire, corpi di samurai morti che lo bloccano etc. etc. - e finiscono nel momento esatto in cui ormai è pronto per scatenarsi. Incapacità, però, anche di rendersi conto della situazione e del proprio ruolo: ha importanza solo il suo camion, non capisce l'entità della minaccia e salva la situazione nello stesso modo in cui gioca d'azzardo. Burton è idiota in senso stretto.
La genialità di Carpenter risiede non solo nel confezionare un film innovativo, adrenalinico e divertentissimo ma, soprattutto, nell'usare come punto di riferimento un personaggio unico ed irripetibile, Jack Burton: la ridicolizzazione di una delle sue creazioni più riuscite e di tutti i suoi (impliciti?) epigoni.

È una questione di riflessi. E di rossetto.

Snake Plissken, di nuovo, in “Escape from L.A.”


Infine bisogna confrontarsi con il seguito di Escape from New York, ovvero Escape from L.A.
Dopo un'assenza di più di un decennio (sia nel film che nella realtà) Snake Plissken torna sul grande schermo per compiere un'altra, improbabile, fuga. Il film, inevitabile fallimento sia di critica che di pubblico, è praticamente un remake del primo episodio, più che un suo sequel. In che cosa consiste questo remake? Carpenter non fa altro che riproporre lo schema di Escape From New York invariato, con il medesimo personaggio in uno scenario modernizzato di quindici anni. Il film presenta, dunque, non la parodia dell'eroe, ma la messa in ridicolo dell'apparato narrativo in cui esso si muove: l'action movie. Nel tempo trascorso il genere ha subito un'evoluzione che lo ha portato ad implodere: i film e i loro protagonisti sono diventati la caricatura di loro stessi. Escape From L.A. Coglie in pieno questa deriva: la colonna sonora pacchiana composta da brani non pensati per il film (anche i TooL, per quanto intrinsecamente californiani, stridono una volta sovrapposti alle immagini), effetti speciali non necessari e, più generalmente, una fotografia improntata alla spettacolarizzazione. La situazione e le premesse sono le stesse dell'originale, ma qui non funziona più niente, tutto è votato all'eccesso e all'esagerazione. Il film gioca in continuazione con le aspettative dello spettatore e si diverte nel tradirle in successione: così dove si intravede un'arena e si immagina la riproduzione dello storico combattimento tra Snake e Slag, tutto ciò che accade è una pseudo-partita a basket. Gli esempi sono innumerevoli, ma l'intento è chiaro: il personaggio è invecchiato ma eterno, il genere (proprio perché spettacolarizzato) ormai morto.
Il finale può essere tranquillamente letto in chiave cinematografica. Non c'è più l'anarchica condanna di tutta l'umanità, ma la voglia del regista di ricominciare da capo annullando una storia ormai satura. Storia di un modo di fare cinema, volontariamente o meno, iniziata anche da lui. Si riparte da zero, ma Snake sopravvive. È lui l'ultimo eroe possibile, l'unico simbolo immortale di una forza distruttrice senza padroni.

L'azione è così volutamente sopra le righe che Snake trova il tempo per battere il cinque ad un amico surfista, mentre cavalcano uno tsunami. Il tutto con una pallottola piantata nella gamba, ovviamente.


 A questo punto è facile capire come è riduttivo considerare Snake Plissken un semplice personaggio. La sua iconocità ha facilmente sfondato le barriere del medium cinema ed è stata capace di riconfigurarsi e suggestionare una quantità elevata di autori e spettatori/fruitori. Ecco due rapidi esempi dell'universalità della sua figura:

Hideo Kojima, nella creazione della stirpe dei protagonisti della sua acclamatissima e famosissima serie di videogiochi "Metal Gear", rende chiaramente omaggio a Snake (tanto da utilizzare anche lo stesso nome per Solid Snake)
Big Boss, il soldato leggendario.



Il duo elettronico Justice ha realizzato un videoclip musicale dove, ancora una volta, i tratti distintivi di Snake Plissken appaiono con prepotenza anche se pesantemente decontestualizzati. Il rimando, a maggior ragione, acquista ancora più validità.



 

lunedì 8 aprile 2013

Drive: tra fiaba e realtà


Drive
Titolo italiano Regia Anno Genere Con
Drive Nicolas Winding Refn 2011 Thriller, Noir Ryan Gosling,
Carey Mulligan
Un pilota d'auto divide le sue giornate tra il lavoro di stuntman e quello di autista dei rapinatori di banche. La quotidianità si interrompe quando conosce la sua nuova vicina di casa, Irene: per sistemare il passato del suo compagno i tre finiscono in una situazione ben più complicata...


Durante tutta la visione di Drive, ci si sente spaesati. Le pellicole di Nicolas Winding Refn non sembrano certo pensate per dare sollievo allo spettatore. Per indagare Drive, è impossibile non parlare dell'altro (primo) vero capolavoro del regista: Bronson. È interessante notare come entrambi i film si basino esclusivamente, anche se in modo diametralmente opposto, sulla potenza dirompente di una figura maschile: fisica e imponente quella di Tom Hardy, iconica quella di Ryan Gosling. Da questo punto di partenza i due film prendono due strade completamente opposte. Bronson si caratterizza come una riscrittura della realtà partendo da una dimensione interna, surreale. Lo spettatore viene gettato senza preavviso dentro alla mente schizofrenica di Charles Bronson, che racconta la sua vita in modo disconesso e onirico. Il monologo interiore è presentato come uno spettacolo, un'esibizione davanti ad un pubblico che c'è, ma non si riesce a percepire: il violento autismo del detenuto più pericoloso d'Inghilterra, viene genialmente rappresentato in un non-luogo fittizio. La realtà può presentarsi solo nel luogo massimo dell'assurdità e della fantasia, il teatro. Ciò che è massimamente violento, impulsivo e caotico, assume concretezza e validità nel momento stesso che è presentato dal suo punto di vista proprio: la mente di uno psicopatico. È il dispositivo cinema, così adoperato da Refn, che ha la pretesa e le capacità di spiegare pienamente il fondo oscuro del mondo, contemporaneamente estraniandosene.
Questa dinamica è, in un certo senso, “accomodante” nei confronti dello spettatore: al senso di dispersione dettato dalle premesse, si rimedia subito con l'accettazione di tutto lo svolgimento del film. Drive, non è così gentile. Infatti, rispetto al suo predecessore, il procedimento è inverso: è la realtà ad essere il substrato di una narrazione riducibile ad un impianto fiabesco, quindi volutamente non realistico.
Lo schema di fondo è certamente quello della fiaba. Il protagonista è il cavaliere senza nome, l'eroe solitario senza un passato. Ci sono la donzella in pericolo e i cattivi, monodimensionali nella loro crudeltà. Con l'inevitabile confronto tra il bene e il male, il finale non apporta nessun guadagno, nessuna conclusione (e nessuna furbata alla Inception, per citare un finale aperto a caso) ma solo la sensazione di aver assistito ad un racconto senza tempo, senza volto infinitamente ripetibile nella sua universalità.
La forma, collaudata, non attinge a nessun contenuto tipico: l'appiglio viene a mancare proprio nel momento in cui ci si rende conto che l'immaginario usato per dare vita a questa narrazione fantastica, attinge unicamente a ciò che immaginario non lo è per niente. La grandezza di Refn risiede proprio nel riuscire a far compenetrare questi due piani tramite una consapevolezza delle potenzialità della macchina da presa. Il cinema, quello di Refn, è in grado di catturare la realtà e dominarla: tramite un processo di estetizzazione riesce a cogliere il comune e a ipostatizzarlo, rendendolo fuori da ogni collocazione possibile. Il film riesce a crearsi una sua personalissima identità proprio nel presentare elementi familiari ma, paradossalmente, non individualizzabili in uno spazio e in un tempo precisi. Si pensi al protagonista: il suo essere non è dato da una storia pregressa, più o meno raccontata, ma dalla potenza dell'impatto visivo che lo presenta. La giacca con lo scorpione, lo stuzzicadenti, le mani in tasca, i guanti indossati alla guida ed un'infinità di altri dettagli. Così, anche il contesto: tutto, dalla fotografia alla colonna sonora, contribuisce a rendere una Los Angeles moderna ma allo stesso tempo esteticamente bloccata negli anni 80. Una città senza tempo, per un eroe senza tempo.

La narrazione non procede per dialoghi. Le interazioni sono limitate ad immagini fatte di silenzi, a scene girate così maestosamente da sembrare veri e propri affreschi. Microscopici movimenti su uno sfondo immobile, creano tensione ed aspettativa che spesso non si risolve nell'atto violento che ci si aspetta: lo spettatore è tenuto sempre in una condizione di nervosismo.

L'abbandono della familiarità si ha già dal titolo. “Drive” non è un film di macchine. Gli inseguimenti ci sono, ma il perno non è certo individuabile nelle scene di guida. Ciò che “guida” realmente il film è la necessità del compimento fiabesco, che si configura in un impulso alla violenza da parte del protagonista. Il cambiamento, dettato dal piombare nella vita del Driver (Ryan Gosling) della figura femminile di Irene (Carey Mulligan), deve risolversi in niente e annullare tutto in un trionfo di violenza. Due sono le scene cardine del film: la scena dell'ascensore e quella al di fuori della pizzeria. Entrambe girate in modo maestoso, sono veri e propri momenti di catarsi. 
Nella prima, l'eroe capisce l'impossibilità di caratterizzarsi in modo diverso, concreto. La sua essenza rimarrà per sempre simbolica, il legame con l'altro è impossibile. La violenza che salva, necessaria, è anche l'orrore di sé, il distacco dalla realtà. Irene si allontana, le porte automatiche si chiudono: la fiaba è costretta nel suo percorso.




Nella seconda è il film stesso a percepire lo scarto identitario: la realtà viene abbandonata, il protagonista elevato a supereroe. La maschera da controfigura, completamente inespressiva, diviene la sua nuova pelle, la sua essenza. Il mondo dall'altra parte della porta a vetro, sporco e corrotto, fa si che l'isolamento sia una condanna necessaria. Gosling diviene la controfigura di sé stesso nel dispiacere di un destino da compiere: il supereroe è l'annullamento di ogni pulsione di socialità e di contatto con il reale.



Chiudo con le parole del regista che, non a caso, ha tracciato una forte connessione fra Drive e il suo successivo film, di prossima uscita: "Only God forgives"

"[Only God Forgives] is very much a continuation of that language"—"[i]t's based on real emotions, but set in a heightened reality. It's a fairy tale."

giovedì 4 aprile 2013

Evangelion e i tre livelli di riferimento

Sebbene sia un po' una forzatura cercare di delimitare in compartimenti stagni ciò che vive nel compenetrarsi di diversi elementi, che formano vere e proprie realtà a sé stanti ma allo stesso tempo necessitanti l'una dell'altra, un ottimo modo di indagare Evangelion nella sua essenza a me più cara, è quello di individuare tre piani narrativi\interpretativi fondamentali. La prospettiva origina la seguente distinzione:

  • Il livello immediato, superficiale. La narrazione in sé, l'avventura, i combattimenti. Il livello pop
  • Il livello intermedio, ornamentale. Un piano fuorviante che arricchisce la narrazione ma la caratterizza necessariamente, muovendosi su un terreno di riferimenti biblici. Il livello del simbolismo evangelico, o più semplicemente il livello evangelico 
  • Il livello più profondo, nascosto ma permeante. Ciò che caratterizza l'essenza ultima dell'opera, la massa informe e pre-concettuale alla sua base. Il livello psicologico

Ribadisco, ancora una volta, la fondamentale importanza di ciascuno dei livelli e la loro necessaria interconnessione. Il livello evangelico infatti è una sorta di medium tra i due poli opposti.
In cosa si caratterizzano questi 3 livelli?



Il livello pop


È la regione superficiale dell'opera. In essa ascrivo l'impianto di base ovvero l'appartenenza al genere dei mecha con il riproporsi dei suoi topoi più classici: protagonisti di giovane età, ognuno degno rappresentante di uno stereotipo diverso dell'individuo giapponese, fan service (prevalentemente a contenuto sessuale) in quantità opprimenti etc. etc.
C'è da dire però che Evangelion fu un grande innovatore sia da un punto di vista prettamente estetico che narrativo. Per la prima parte della serie ci ritroviamo davanti al top dell'animazione giapponese del 95/96, con un design dei mecha e degli angeli che, nella sua peculiarità, ha fatto storia. Inoltre le sequenze action delle battaglie, seppur seguendo il collaudato schema alla “yattaman” (riassumibile in: nemico ----> difficoltà ----> possibile sconfitta ----> capovolgimento della situazione ----> vittoria) proponevano approcci tattici e soluzioni mai viste prima. La narrazione viene farcita poi di situazioni e concetti propri della società moderna (Asuka e Shinji che sconfiggono un angelo allenandosi con un rhythm game) Nel piano della mera presentazione, dunque, Evangelion si dimostra essere rivoluzionario e moderno, pur rimanendo saldamente attaccato alle basi consolidate dalla tradizione.




Il livello evangelico


Con il secondo livello si inizia ad intravedere lo scarto concettuale. L'anime infatti è letteralmente ricoperto ed imbevuto di riferimenti biblici. A quale scopo? Un primo suggerimento può arrivarci da Kazuya Tsurumaki, aiuto regista di Hideaki Anno, che, citando quanto riportato su wikipedia, afferma che

they originally used Christian symbolism only to give the project a unique edge against other giant robot shows, and that it had no particular meaning, and that it was not meant to be controversial (like it was)

Il riferimento alla mitologia cristiana è quindi un puro ornamento senza alcun significato concettuale di fondo? La verità, a mio avviso, risiede nel mezzo. La scelta di questa determinata religione è sicuramente da un lato, come indica Tsurumaki, una scelta prettamente pop, che ribadisce ancora una volta l'intento sincretico dei creatori di creare qualcosa imbevuto di tradizione ma allo stesso tempo profondamente innovativo – e quale modo migliore se non quello di far compenetrare l'apice della cultura di massa orientale con gli albori della vita spirituale occidentale? - e non si colloca su un piano specificamente essenziale: partendo dal titolo, passando attraverso gli angeli e la sconfinata miriade di simboli mutuati dal cristianesimo, tutto questo è puramente accidentale. Approcciarsi all'opera con intenzione esegetica, religiosa in senso stretto, è un gravissimo passo falso che porta assai lontano dal vero nucleo concettuale. Ma al tempo stesso, vera arma a doppio taglio, il livello evangelico è una preziosissima informazione sul carattere trascendentale dell'opera: trascendimento che non si configura in una meta-fisica, in una riflessione che scavalca il sensibile per sfociare nel divino, ma anzi si colloca all'interno della fisicità dell'uomo, nel suo intimo più profondo. L'albero della vita, che appare nella sigla (vedi immagine), è il punto cardine di questa mia interpretazione: esso è il simbolo del progetto per il perfezionamento dell'uomo, argomento che compare da subito nell'anime e serpeggia velenosamente lungo tutta la sua durata per poi palesarsi, cripticamente, negli ultimi due episodi. In cosa consiste questo perfezionamento, il superamento dei limiti come uomo? Questo progetto non va inteso come qualcosa di concreto da realizzarsi in senso religioso, ma in chiave psicologica: è qui che si arriva, tramite la mediazione di questo piano intermedio, all'ultimo livello.
Riferimenti cristologici.

l'albero della vita
















Il livello psicologico


Sorprendentemente, ma forse neanche troppo, tutto quanto si risolve intorno a Shinji. Ogni piccolo accadimento, ogni simbolo religioso si ricompone nel progetto del perfezionamento dell'uomo. Questo non è altro che il percorso, e al tempo stesso il punto di arrivo, che deve affrontare Shinji nel viaggio più difficile di tutti quanti: la transizione da ragazzo ad adulto. Shinji è costretto a fare i conti con le asperità della vita: la sua totale apatia, la mancanza di volontà, le guerre combattute per altri, la paura del contatto, la separazione dalla madre e il timore dell'autorità del padre. Il protagonista attraversa in un tragitto surreale, costellato di robot e smaterializzazioni, angeli e società segrete, tutte le laceranti lacune dell'animo umano. Sarebbe inutile ribadire quanto il simbolismo psicologico, anche se molto meno evidente di quello religioso, giochi un ruolo essenziale nel prodursi dell'opera (Primo esempio lampante: l'Evangelion come il grembo materno e l' LCL come il liquido amniotico in cui i piloti si immergono).
È interessante notare come il “vangelo del nuovo secolo” non sia altro che una delle più grandi introspezioni dell'uomo moderno, in particolare di quello giapponese, catturato in tutte le sue nevrosi. È una sorta di ritorno al ruolo primordiale della fantascienza, che i giapponesi, forse, non hanno mai abbandonato. Così come Godzilla era un modo per introiettare e reimmaginare le atrocità subite durante la seconda guerra mondiale, così Evangelion propone il dramma esistenziale su un piano di iper-realtà necessario per affrontare il male più subdolo, più intangibile. Ciò che però sorprende è come tutto questo si risolva nell'accettazione della vita in quanto tale. Sperimentato il nichilismo più assoluto, Shinji si rende conto dell'impossibilità del rifiuto dell'altro: un modo senza “altro”, pre-coscenziale in senso stretto, dove si è tutt'uno con l'alterità (la madre), non può essere scelto. La scelta, intesa come vita ed esistenza, presuppone dei limiti, dei vuoti, delle distanze: ma proprio in ciò ci riconosciamo e ci autodeterminiamo. In ciò che è diverso da noi decidiamo di rispecchiarci e di completarci. Il percorso è in salita e pieno di sofferenze, ma è proprio nell'atto dell'accettazione, nel decidere di non fuggire (altro tema ricorrente durante tutta la serie) che ci si dispone alla socialità, all'esperienza possibile: ed è il mondo ad accoglierci.


Complimenti!