martedì 9 aprile 2013

John Carpenter e Kurt Russell: il destino dell'eroe americano



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Il cinema di Carpenter è fantastico perché creativo. Il regista è riuscito con i suoi film, nonostante budget limitatissimi nella maggior parte delle sue produzioni, a dare origine a novità di ogni tipo che sono poi diventate, una volta assimilate dalla massa, linguaggio comune nel cinema contemporaneo. Ciò che non ha avuto successo all'epoca, è diventato oggetto di culto al giorno d'oggi. Uno dei suoi numerosi apporti al cinema americano è stato quello di aver fornito le basi per la creazione dell'action movie moderno, introducendo, anche grazie al sodalizio con Kurt Russell, due personaggi ormai divenuti vere e proprie icone.


Premessa: Napoleon Wilson in  Distretto 13


Sebbene Kurt Russell non sia presente nel film, è indubbio che in Carpenter inizi a germogliare l'idea di un certo tipo di personaggio. Nella storia è così presente Napoleon Wilson (Darwin Joston), vero prototipo di Snake Plissken. L'impostazione è proprio quella che caratterizzerà il protagonista di Escape From New York: totale assenza di background volta a suscitare riverenza ed ammirazione da parte degli altri personaggi. Attorno a Napoleone, così come a Plissken, ruota un mondo di curiosità inesauribile.

Sapientemente, Carpenter non fornisce le motivazioni della condanna a morte di Napoleon

Egli è una figura scolpita nella tradizione e radicata nella coscienza collettiva, volta unicamente a determinare il senso di inadeguatezza dell'individuo: l'eroe è lì, tra il bene e il male, è nel giusto ma per forza fuori dai confini della moralità accettata (e accettabile).

Snake Plissken in “Escape From New York”


L'incipit di Escape From New York è chiaro: la missione presentata, è un suicidio. Lì, dentro al cuore pulsante dell'occidente, ma fuori dai vincoli imposti dalla civilizzazione, nessun uomo libero potrebbe sopravvivere. Carpenter crea questa situazione in modo da poter preparare l'unico terreno possibile di azione per un personaggio del calibro di Snake Plissken: egli è più di un semplice uomo, la sua figura deve sfociare da subito nel mito.
Il suo presentarsi è sempre destabilizzante (da qui la frase con cui verrà accolto sempre “ti facevo più alto”) in quanto la leggenda è pura fantasia, l'uomo che la rappresenta non può mai reggere il confronto con l'immaginazione che lo crea e lo rende immortale. Esteticamente, Carpenter crea un contenitore: il corpo di Kurt Russell diviene la forma tipo dell'action hero, da li ai venti anni a seguire. Dall'occhio bendato alla postura, dalle espressioni facciali alla canottiera, vengono stilate le caratteristiche tipiche di una figura destinata a numerose ri-concretizzazioni: è nata una maschera.
Quello che gli permette di essere eretto a simbolo di una categoria, è il contenuto solo alluso: i riferimenti al suo passato sono pochi e, volutamente, confusi. E' leggenda proprio in quanto è presente ma mai realmente raggiungibile: Snake è poco più di un miraggio, una vera e propria ombra. Non servono dettagli che lo strapperebbero da quell'alone di indeterminatezza e confusione che gli permettono di essere se stesso e familiare a tutti, ma allo stesso tempo un grande buco nero nella storia americana, un fantasma pensato e re-immaginato dalla collettività in modo mai uguale. È nel rapporto con la collettività che l'eroe si configura come tale: Snake sarà per sempre un outsider, una figura fuori dal tempo che compare dal nulla per risolvere la situazione e in fine scomparire di nuovo senza lasciare traccia. Il finale non rappresenta solo il rifiuto di una società gretta e spietata, rappresentante di quei falsi valori di cui si fa portatore il civilizzato cittadino degli Stati Uniti d'America: la sua è una condanna totale all'uomo in quanto tale. Niente divide il Conte dal presidente degli USA, non c'è differenza tra la prigione di stato di New York e una qualsiasi metropoli americana “legittima”. L'umanità si dimostra incapace di configurarsi pacificamente, l'impulso alla società è impossibile. Snake chiede il distacco finale (“chiamami Plissken”), lascia il mondo all'autodistruzione e rifiuta di fatto la socialità in sé, non una determinata etica in favore di un'altra.

L'outsider per eccellenza, non può non essere un fumatore.


Jack Burton in “Big Trouble in Little China”


In “Big Trouble in Little China” la formula Carpenter/Russell viene ripresentata, ma questa volta la prospettiva è completamente ribaltata. Jack Burton, il personaggio impersonato da Kurt Russell, è la dissacrante parodia di Snake Plissken e di tutti i suoi cloni. L'involucro, Russell, è lo stesso ma stavolta ci troviamo ad una figura diametralmente opposta: l'alone di mistero che serpeggia intorno a Snake in Jack Burton svanisce completamente per una cristallina e inequivocabile rappresentazione dell'idiozia americana. Il procedimento di caratterizzazione è il medesimo: non c'è alcuna sovrabbondanza di informazioni riguardo al personaggio, egli funziona in quanto è presente. Con Snake è lo spettatore a caricare di aspettativa e a riempire di contenuto una figura così potenzialmente carismatica, grazie ad una gestione dei dialoghi impeccabile, mentre con Jack Burton c'è poco da fantasticare. Egli è il simbolo della povertà espressiva dell'americano medio: armato di jeans, canotta e panino in mano, la sua unica aspirazione è ritrovare il suo camion. Jack Burton parla di sé in terza persona, convinto non solo della sua sagacia ma del suo stesso essere leggenda. Anche lui è un outsider, ma in modo diverso: non c'è nessuna scelta razionale, nessuna volontà di condanna, solo un'incapacità di fondo. Incapacità, innanzitutto, di stare al passo con gli altri: tutte le scene di azione iniziano con Burton che si mette fuori gioco da solo – mitra che gli scappano dalle mani, calcinacci in testa che lo fanno svenire, corpi di samurai morti che lo bloccano etc. etc. - e finiscono nel momento esatto in cui ormai è pronto per scatenarsi. Incapacità, però, anche di rendersi conto della situazione e del proprio ruolo: ha importanza solo il suo camion, non capisce l'entità della minaccia e salva la situazione nello stesso modo in cui gioca d'azzardo. Burton è idiota in senso stretto.
La genialità di Carpenter risiede non solo nel confezionare un film innovativo, adrenalinico e divertentissimo ma, soprattutto, nell'usare come punto di riferimento un personaggio unico ed irripetibile, Jack Burton: la ridicolizzazione di una delle sue creazioni più riuscite e di tutti i suoi (impliciti?) epigoni.

È una questione di riflessi. E di rossetto.

Snake Plissken, di nuovo, in “Escape from L.A.”


Infine bisogna confrontarsi con il seguito di Escape from New York, ovvero Escape from L.A.
Dopo un'assenza di più di un decennio (sia nel film che nella realtà) Snake Plissken torna sul grande schermo per compiere un'altra, improbabile, fuga. Il film, inevitabile fallimento sia di critica che di pubblico, è praticamente un remake del primo episodio, più che un suo sequel. In che cosa consiste questo remake? Carpenter non fa altro che riproporre lo schema di Escape From New York invariato, con il medesimo personaggio in uno scenario modernizzato di quindici anni. Il film presenta, dunque, non la parodia dell'eroe, ma la messa in ridicolo dell'apparato narrativo in cui esso si muove: l'action movie. Nel tempo trascorso il genere ha subito un'evoluzione che lo ha portato ad implodere: i film e i loro protagonisti sono diventati la caricatura di loro stessi. Escape From L.A. Coglie in pieno questa deriva: la colonna sonora pacchiana composta da brani non pensati per il film (anche i TooL, per quanto intrinsecamente californiani, stridono una volta sovrapposti alle immagini), effetti speciali non necessari e, più generalmente, una fotografia improntata alla spettacolarizzazione. La situazione e le premesse sono le stesse dell'originale, ma qui non funziona più niente, tutto è votato all'eccesso e all'esagerazione. Il film gioca in continuazione con le aspettative dello spettatore e si diverte nel tradirle in successione: così dove si intravede un'arena e si immagina la riproduzione dello storico combattimento tra Snake e Slag, tutto ciò che accade è una pseudo-partita a basket. Gli esempi sono innumerevoli, ma l'intento è chiaro: il personaggio è invecchiato ma eterno, il genere (proprio perché spettacolarizzato) ormai morto.
Il finale può essere tranquillamente letto in chiave cinematografica. Non c'è più l'anarchica condanna di tutta l'umanità, ma la voglia del regista di ricominciare da capo annullando una storia ormai satura. Storia di un modo di fare cinema, volontariamente o meno, iniziata anche da lui. Si riparte da zero, ma Snake sopravvive. È lui l'ultimo eroe possibile, l'unico simbolo immortale di una forza distruttrice senza padroni.

L'azione è così volutamente sopra le righe che Snake trova il tempo per battere il cinque ad un amico surfista, mentre cavalcano uno tsunami. Il tutto con una pallottola piantata nella gamba, ovviamente.


 A questo punto è facile capire come è riduttivo considerare Snake Plissken un semplice personaggio. La sua iconocità ha facilmente sfondato le barriere del medium cinema ed è stata capace di riconfigurarsi e suggestionare una quantità elevata di autori e spettatori/fruitori. Ecco due rapidi esempi dell'universalità della sua figura:

Hideo Kojima, nella creazione della stirpe dei protagonisti della sua acclamatissima e famosissima serie di videogiochi "Metal Gear", rende chiaramente omaggio a Snake (tanto da utilizzare anche lo stesso nome per Solid Snake)
Big Boss, il soldato leggendario.



Il duo elettronico Justice ha realizzato un videoclip musicale dove, ancora una volta, i tratti distintivi di Snake Plissken appaiono con prepotenza anche se pesantemente decontestualizzati. Il rimando, a maggior ragione, acquista ancora più validità.



 

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