sabato 1 febbraio 2014

Il Bidone [Fellini Checklist 6/24]




«Il crepuscolarismo di Fellini, i motivi sempre uguali della sua metafisica e del suo simbolismo, la sua partecipazione episodica alla realtà, frammentaria, solo in parte nutrita di elementi e atteggiamenti realistici, denunciano ancor più, questa volta, l'accennata insincerità. Il film appare quasi prefabbricato: ritrovi in esso le stesse componenti, anche formali, delle precedenti opere, analoghe sequenze, il pianto del bambino o il cavallo della Strada, quel vagabondare notturno, la festa. Picasso parla e agisce come il Matto, e Iris sua moglie ha le movenze e il tono di Gelsomina».

Guido Aristarco, Cinema nuovo, 25 settembre 1955



Ecco come la critica marxista accoglieva Fellini all'uscita del film “Il Bidone”. L'incapacità di andare oltre determinati stilemi porta alla necessaria stroncatura di un film magnificamente felliniano. Lo stile del regista, ormai consolidato, si dirige chiaramente all'opposto del neorealismo, creando così un baratro insuperabile tra le sue opere e la ricezione da parte della critica di “sinistra”. Se già “La Strada” era stato tacciato di aprire le porte alla favola e allo spiritualismo, non sorprende l'odio rivolto nei confronti de “Il Bidone”.






Il problema, se così lo si vuol chiamare, del film, è quello di essere diretto discendente di tutta la filmografia di Fellini, figlio legittimo del regista di Rimini. Proprio all'opposto dell'insincerità, come si può parlare di prefabbricazione? La ricorrenza dei caratteri formali, il suo “crepuscolarismo”, sono proprio questi a rendere il regista un autore: il suo infondersi nell'opera, il suo smascherarsi davanti al pubblico. A tal proposito, c'è una tesi molto interessante di Jean Renoir, che sosteneva (parafrasando) che “un regista rifarà sempre lo stesso film, con gli stessi temi, scelte e situazioni”. Solo una critica viziata (da un impianto ideologico) può vedere in ciò il punto di arrivo che porta alla demolizione, bisognerebbe invece prenderlo come punto di partenza che, collocandolo storicamente e stilisticamente, attribuisce subito al film una delle qualità fondamentali: una forte identità autoriale. Cosa si può dire allora de “Il Bidone”, ennesima reiterazione degli stessi temi, ulteriore messa in scena di un ideale film sempre uguale a se stesso?







È chiaramente un film imperfetto, che non riesce a ripetere l'eccellente equilibrio stilistico ed emozionale raggiunto ne “La Strada”. Manca, a livello narrativo, quella forte connessione empatica che non solo riusciva a legarci alla dolcissima Gelsomina (Giulietta Masina) ma che faceva emozionare violentemente anche con lo struggente pianto finale del burbero Zampanò (Anthony Quinn). Non è un caso che con il progredire del film i personaggi vadano piano piano a scomparire, senza neanche “salutare” lo spettatore. L'unica figura costante è quella del (quasi) protagonista Augusto (Broderick Crawford), truffatore per antonomasia ma allo stesso tempo vittima dei suoi stessi travestimenti, del suo continuo inganno: proprio nei momenti in cui non recita, ma è costretto ad essere se stesso, si scopre incapace a vivere. Film sbilanciato e impenetrabile, nasconde proprio in questa figura la sua chiave di lettura: per Fellini forse il film,, fino a questo punto, più autobiografico, più sentito, dove il regista non smette mai di pensare al suo ruolo, al suo rapporto con il pubblico, alla sua reale incapacità di essere onesto con chi lo guarda: la sua impossibilità di essere (neo)realista. Una pellicola che parla e dice molto, ma non ce ne accorgiamo. Il dialogo è muto e biunivoco: ci sono solo l'autore e la sua opera.






"...ma io, che avevo tutto il tempo a mia disposizione, sarei rimasto volentieri delle ore a veder morire Broderick Crawford" - François Truffaut

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