sabato 15 febbraio 2014

La Città delle Donne [Fellini Checklist 20/24]

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Sebbene “La Città delle Donne” segni il ritorno di Fellini al grande schermo dopo l'ennesima esperienza televisiva, il film presenta le stesse problematiche del docufiction “Prova d'Orchestra”. Lo scontro frontale con la realtà e la sua parodizzazione, manifesta pretesa politica ormai presente nel cinema di Fellini, è un elemento che il regista non riesce a domare in pieno. Fellini cerca di far irrompere il presente nel suo mondo, di attualizzare la sua visione per strapparla dalla riflessione astratta. “La Città delle Donne” è quindi un tentativo di ripresa dell'universo a sé stante de “La Dolce Vita” e “8½ ”, dove l'autore cerca di concretizzare e modernizzare un'esperienza sostanzialmente unica e irripetibile. Il riferimento, vero e proprio ritorno, lo si intuisce da subito: Mastroianni protagonista, alter-ego prediletto di Fellini, incarna ancora una volta un personaggio in balia degli eventi, o ancora meglio, della sua fantasia. Snaporaz, uomo vittima dei suoi stessi sogni e Guido Anselmi, regista in crisi, sono solo differenti incarnazioni della stessa figura archetipica tanto cara a Fellini. Il regista nelle due pellicole, non fa altro che sviscerare a fondo due configurazioni di un unico io.
In cosa differiscono dunque i due film?









Innanzitutto “La Città delle Donne” è un'indagine lucida e razionale sulla figura femminile nella società moderna, e tradisce la sua superficie di racconto onirico. L'elemento surreale, base fondante in “8½ ”, qui risulta essere soltanto un pretesto narrativo: l'esplorarsi lascia il posto ad una ricerca ambiziosa. In quanto tale, esige e pretende una soluzione. Questo il limite insormontabile del film: i capolavori di Fellini, tra i quali “8½ ” è la vetta massima, si ponevano in un rapporto di reciproca influenza con il proprio autore, anzi lo sovrastavano. Era lo stesso Fellini a lasciarsi trasportare dall'idea, ad inseguire un sogno meschino, ormai svanito ed irraggiungibile. L'universale fascino che riusciva a suscitare, derivava si da una profonda analisi introspettiva, ma la volontà del regista si annullava completamente in essa. Solo così si generava una sincera riflessione sull'arte e sul mondo, senza limiti e confini. Più di un quarto di secolo dopo, Fellini cerca di replicare la magia, ma è una strada che non può essere battuta razionalmente e il risultato è fallimentare, a partire dall'intenzione.








Ciò che rimane è l'immancabile bellezza del cinema felliniano. Un'identità estetica inesprimibile a parole, che vive di immagine pura, unita a intuizioni mai ridondanti. Però questa volta manca il collante che riusciva ad unificare la potenza della visione in un unico atto di fruizione. La sensazione che trasmette “La Città delle Donne” è quella di un continuo esercizio di stile che non riesce a connettere le sue immagini in un tessuto organico. È proprio con questa assenza che ci si rende conto quanto determinante fosse la storia nella fruizione dello sguardo di Fellini. La narrativa scollegata ed episodica de “La Dolce Vita”, l'incedere rapsodico di “8½ ”, l'eccessivo barocchismo de “Giulietta degli Spiriti”, il pretesto storico-letterario de “Satyricon” e “Casanova” (vere e proprie reinterpretazioni tanto da necessitare il nome del regista nel titolo) divengono elementi importanti tanto quanto la forma/immagine nel ripensamento della cinematografia del regista. Senza un apparato narrativo stratificante, la visione si perde nel volgare e nel ridicolo. Il confine tra il sensato e il pretestuoso viene tristemente abbattuto: “La Città delle Donne” si auto-demolisce nel suo desiderio programmatico di voler colpire lo spettatore, nel voler disturbare il suo sguardo. Fellini, per la prima volta orfano di Nino Rota, fallisce nell'ingenuo tentativo di cercare l'ispirazione ripercorrendo i suoi passi. “La strada” è un'altra.




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